Mandorlo in Fiore, tra miracoli e petali calpestati

Si parla tanto di miracolo della natura, con tanto di foto, articoli, servizi televisivi. Ma il miracolo non sono i fiori di mandorlo. Sono altri i miracoli in una città che si divide su Sagra sì e Sagra no, su Sagra tradizionale e Sagra innovativa, sui soldi da investire e sui soldi da “sparagnare” (risparmiare), sul tipo di organizzazione, sui direttori artistici, sul senso e sul valore dell’evento. 
Intanto, ci siamo tolti un pensiero. Il problema Sagra non c’è più perché la parola “sagra” è stata cassata dalla denominazione complessiva (per un filone di pensiero: un’ottima cassata!). Non più Sagra del Mandorlo in Fiore ma da quest’anno solo “Mandorlo in fiore”. 
Ma andiamo agli altri aspetti, come quello che anticipa la festa e poi l’accoglie tra i colori e i profumi di una natura che si risveglia ancor prima della primavera e ravviva la magia delle imperiture doriche colonne. 

Ogni anno si parla di miracolo che si rinnova nella Valle dei Templi con i rami degli alberi di mandorlo che, fregandosene del freddo invernale, ridono alla vita riscaldando i gelidi occhi umani con il tepore di splendidi fiori bianchi e rosa. 
I fiori di mandorlo, ad Agrigento, si aprono prima di ogni altro fiore e prima della consacrata stagione primaverile. Una magia, che si ripete da sempre. In tanti, tantissimi gridano però al miracolo. Ma perché – mi permetto di appuntare – parlare di miracolo se, come il sangue di San Gennaro, avviene puntualmente ogni anno? I miracoli sono eventi straordinari, non di umano, ma comunque inaspettati, non scontati. Possono anche non verificarsi. 
Punto uno, che è la premessa: la scenografia naturale dei mandorli in fiore, attorniante Agrigento, è una meraviglia, uno spettacolo che prepara gli animi alla festa. 
I veri miracoli dell’ex Sagra, ora solo Mandorlo in fiore, sono da ricercare in altro. Vediamo. 

Un primo miracolo è il risveglio di un popolo che si ritrova unito e riunito come per San Calogero. Vie e Piazze si riempiono di persone che partecipano alle sfilate e alle esibizioni, per vedere chi c’è, per chiedere da quale parte del mondo vengono i gruppi folcloristici (lo chiedono anche in siciliano come lo chiedevo io), per ascoltare musiche strane suonate dal vivo, per farsi coinvolgere dai ritmi tribali di gruppi provenienti dal centro Africa (composti magari da medici, insegnanti, emigrati in Italia da tempo e che abitano o sono occupati in umili lavori a poche centinaia di metri da casa nostra). 
Il grande, grandissimo miracolo è proprio la presenza del mondo ad Agrigento. E lo dico rievocando la meraviglia di quando ero bambino, un bambino che piangeva per andare il mercoledì alla fiaccolata: non la potevo perdere e ci dovevo andare anche vestito da carnevale quando il carnevale coincideva con la Sagra ma anche quando non coincideva. E confermo la stessa meraviglia anche da ragazzo, quando ventenne ho cominciato anche io a frequentare i gruppi folcloristici partecipando negli anni Novanta alla Sagra e ad altre simili feste in paesi stranieri vivendo sempre le stesse emozioni (ne ho girati tre: La Vallata, Gergent e il Città di Raffadali; ho iniziato come ballerino ma siccome ero troppo negato, per non dire scarso, mi sono buttato al canto non disdegnando il bummulu e il tamburo e lanciandomi anche nelle presentazioni e nella recitazione: una palestra, insomma, oltre che insostituibile momento di crescita, di socializzazione, di conoscenza, di creatività). 

È da anni che non rivivo l’evento Sagra o come si chiama adesso, né da protagonista né da spettatore. Ma ricordo la frenesia, da piccolino, di farmi largo tra la folla, infilarmi in un buco tra foreste di gambe e trovare la postazione ottimale per assistere allo spettacolo. Ricordo la felicità nel seguire a piedi i gruppi la domenica da Piazza Municipio fin giù nella Valle dei Templi. Ricordo le uscite anzitempo dalla scuola, prima dalla media “Pirandello” e poi dal liceo scientifico “Leonardo – per andare ad assistere alle esibizioni dei gruppi in piazza Cavour. Ricordo l’ebbrezza di essere protagonista tra centinaia di protagonisti e attraversare Via Atenea col bummulu tra le mani e una corona di cianciane al collo (ancora bocciato come ballerino!), con la suggestione delle torce e lo stordimento di applausi continui di una massa festosa e illuminata dagli occhi sgranati di bambini sulle spalle di genitori, occhi che mi ricordavano gli occhi del piccolino che sono stato. 

E gli applausi! Quanti applausi, non a me, ma a quello che in quel momento rappresentavano i componenti di tutti i gruppi folk: popoli del mondo che mettono da parte ogni divisione e si riuniscono, ripetendo all’inizio un rito che mette i brividi per il suo significato: l’accensione del tripode dell’amicizia davanti al Tempio della Concordia, israeliani e palestinesi, russi e americani, cattolici e mussulmani, bianchi e neri. E poi via ai balli e ai canti in giro per la città, per i quartieri periferici, e con serate al chiuso di un palatenda o al palacongressi. Applausi scroscianti per artisti di eccezionale bravura, veri professionisti nella danza e nelle orchestrazioni. 
Anche la più noiosa esibizione veniva applaudita. L’applauso andava non alla qualità dello spettacolo, ma al paese che rappresentava il mondo, le Nazioni Unite ad Agrigento. E, da spettatori, ci si appassionava pure all’uno o all’altro gruppo, amareggiandosi da tifosi se il proprio gruppo non vinceva alla fine della festa il tempio d’oro. 

Ecco la bellezza di un appuntamento che, con alti e bassi, tra critiche e difese, si ripropone ogni anno come per… miracolo! Con tentativi che, negli anni, hanno pure cercato di far alzare il livello spettacolare e di richiamo turistico della festa. Ricordo ancora – perché le ho seguite da giornalista in erba – le edizioni di David Zard e Gianni Minà, ricordo le rassegne con gruppi di musica rock al Caos e i gruppi gospel nella cattedrale o il concerto di Robbie Robertson e gli Indiani d’America al Palacongressi. 


La Sagra come appuntamento folcloristico e di incontro tra paesi diversi, a cui legare altre iniziative di attrattiva internazionale, con Agrigento e la Sicilia al centro di tutto: penso ancora sia la strada da continuare a percorrere, per rispettare la tradizione e per attrarre i popoli di tutto il mondo tra i sentieri profumati della Valle dei Templi dove stendere non tappeti di petali di rosa come si fa per le persone e gli eventi più importanti, ma lastricando ogni sentiero con petali di fiore di mandorli, da calpestare con umana delicatezza per raggiungere mano nella mano il Tempio della Concordia e accendere la fiaccola dell’amicizia. 

Un appuntamento di pace e fratellanza, nel cuore del bellico Mediterraneo, dove rimarcare ogni anno che non ha importanza se sei giallo o rosso, extracomunitario o europeo, colto o ignorante, capellone o pelato. Per rimarcare che siamo uguali, anche senza peli in testa e nelle lingue, e che dobbiamo fare ogni sforzo per vivere in pace e solidali in un mondo che si è fatto e si fa sempre più piccolo (speriamo che non si riduca a condominio). Il Mandorlo in Fiore rimanga e continui a essere luogo di convegno dove ognuno rappresenti il mondo da fiero protagonista, con i colori del proprio paese. Tutti ad Agrigento per armarsi di buoni sentimenti e, soprattutto, buona volontà, far tacere i cannoni e difendere la pace, fragile come un petalo di fiore di mandorlo. 
Preghiamo in tutte le lingue del pianeta per questo miracolo. 
Raimondo Moncada 

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