Sui monti dove urla il vento, con i partigiani di ieri e di oggi

Rimani come sospeso nell’aria. Ci sei, ma non ci vuoi credere. Sei in un luogo, uno dei tanti, tantissimi luoghi dove è nata la Costituzione, dove i partigiani come tuo papà hanno combattuto durante la Resistenza contro l’esercito oppressore. Prima a Reggio Emilia, al centro Foscato, e poi in montagna a Ca’ di Malanca, simboli di quella lotta, di quella storia, che leggevo negli occhi grigio-azzurri di mio padre, mutilato a sedici anni per quella sua scelta di fede e di ideali. 

Sei nei monumenti, conosci i figli di chi è stato ucciso, parli con gli ultimi protagonisti ora novantenni che si avvicinano col tricolore al collo e ti stringono la mano (“sento il dovere…”), metti timidamente i piedi nei sentieri partigiani, tocchi quegli alberi che facevano da scudo ai volontari per la libertà, entri nelle case di famiglie che gli hanno dato rifugio rischiando la morte, senti forte quel vento che nella notte dell’umanità ha urlato. 



E chi me lo doveva dire? Chi lo doveva dire a Raimondo, “u figghiu di Gildu”, che per rivedere la videocassetta di uno degli ultimi 25 aprile di suo padre ha impiegato 15 anni? 

Una storia, quella raccontata nel libro Il partigiano bambino – la storia di Gildo Moncada, che mi sta portando lontano, nel tempo, negli affetti, nella memoria, nella geografia, che mi sta facendo aprire libri (vivi) mai incontrati a scuola, che mi sta portando in luoghi sconosciuti dove ogni volta trovo, dentro e fuori, risposte a eterne domande e fuochi ancora accesi. 



Un viaggio durante il quale sto entrando in contatto con splendide persone (e la frequentazione fa stringere belle e spontanee amicizie) che ti ascoltano anche nei tuoi lunghi e provati silenzi, in quei momenti di rinnovata tensione emotiva quando racconti la storia di tuo padre e la storia che ti vibra nella pelle e ti fermi davanti a nodi che vogliono essere sciolti o quando, una domanda, ti mette di fronte una parete rocciosa da scalare a mani nude. 

Grazie a chi mi ha abbracciato, a chi mi ha dedicato una canzone o una poesia, a chi mi ha preso per mano, ai ragazzi di Ad Est, alle varie sezioni dell’Anpi, ai centri e alle associazioni che ogni volta mi accolgono con sincero calore, non straniero ma uno di loro. 

Per me, cinquantenne corazzato, è importante. Perché alla fine non ho l’età che ho, ma cinque, sei… Un bambino che piange il suo papà che non c’è da troppo tempo e a cui, da adulto quasi maturo, avrebbe voluto dire e chiedere tante cose. Un padre, uomo e bambino, che, da lassù, sopra il suo sogno sicuramente non più mutilato, sta facendo rivivere al proprio figlio (in minuscola, simbolica parte) quello che lui ha vissuto. 

Raimondo Moncada 

www.raimondomoncada.blogepot.it 


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