Un tempio, il silenzio, un cellulare

Immerso nel silenzio di un tempio, da solo, fuori orario; fuori piove, e tra le gocce di pioggia in lontananza senti avvicinarsi dei passi dietro la tua schiena rafreddata dalla temperatura precipitata in poche ore; è una signora con le mani appesantite da borse di plastica che lascia cadere su uno dei tanti sedili vuoti e, nel silenzio e nel mistero dell’offerta e della preghiera, prende una candela e l’accende. 

Un pensiero, un gesto che mi commuove. 

È a pochi metri da me. Osservo con la coda dell’occhio, sempre seduto, senza far rumore. Nel profondo e sacro silenzio il percepibile movimento del respiro è già un fastidio. 

Le tolgo lo sguardo. Per non avere più nessuna distrazione ritorno alla dimensione precedente. 

È solo un attimo perché sento un suono. È un cellulare. Lo riconosco. 

Mi giro, mi guardo attorno. 

Nel tempio non c’è nessun altro se non io e la signora della candela a cui ridedico la mia attenzione. Prende la sua borsa, non quella della spesa, ma quella d’accompagnamento e cerca, cerca. Il suono del cellulare conquista ogni anfratto del sacro spazio. 

Trovato! Lo esce e il suono si fa più forte, rimbomba e scuote le antiche tele con le figure che, impotenti, l’osservano. La signora, senza guardare alcuna presenza attorno a lei, rompe gli indugi. Pigia il tasto play e risponde: 

“Sì, un attimo, sto uscendo!” 

Un attimo, solo questione di un attimo, anche per rompere il sacro silenzio di chi la candela l’ha accesa dentro di sé senza disturbare nessuno. 

La prossima volta salirò sulla vetta più alta del Tibet dove le aquile divorano i mangiatori di silenzi.
Raimondo Moncada

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