La prima campanella, le prime liti per un banco a scuola

Oggi ho sentito la mia prima campanella della scuola, quella del liceo. È risuonata dentro di me quando di buon mattino, alle 7,30, nel giorno d’inizio del nuovo anno scolastico, ho visto una quindicina di studenti spingersi per aggiudicarsi le migliori posizioni sulla scalinata del portone, ancora chiuso, di un istituto superiore.

Si sono alzati presto per battere sul tempo gli altri compagni e varcare, così,  per primi la soglia della scuola. Obiettivo: arrivare primi in classe. Un primato che varrà il banco migliore.
Chi arriva prima meglio alloggia!
Ho notato che si erano dati appuntamento a gruppi, dopo le vacanze estive. Segno di studenti non di primo pelo, cioè di primo anno, ma di anni successivi, ormai veterani e sicuri e divertiti di azioni premeditate da giorni, sulla scorta delle esperienze passate.
Oggi non si eredita il banco dell’anno precedente, specialmente se ti sistemano in una nuova aula. Te lo devi conquistare sacrificando mezz’ora del tuo sonno, facendo anche a gomitate con i coetanei e correndo per scale e corridoi per battere sul tempo la concorrenza. Qualcuno si sarà pure allenato con un prof privato di educazione fisica, materia che fa bene alla salute e fa bene ai “cento metri ostacoli” del primo giorno di scuola.
Il banco è importante. È strategico. Te lo porti in dotazione per otto mesi. Essere al primo banco, a un metro dal respiro del prof o della prof, ti espone troppo alle interrogazioni. E non ti puoi permettere, durante le spiegazioni dell’insegnante, di distrarti un attimo per elaborare l’insegnamento o anche per sbadigliare o grattarti la testa. Ti puoi pure scordare di rispondere furtivamente a un messaggino al cellulare, perennemente acceso e da cui fai fatica a staccarti perché ti connette col mondo. Hai gli occhi del docente sempre addosso, pronti a fulminarti e a stecchirti come una zanzara. Le seconde file sono quelle migliori per chi vuole stare attento alla didattica e prendersi qualche nascosto momento da dedicare interamente a se stesso dopo ore di attenzione prolungata. Nelle ultime file hai la maggiore protezione. Sei come dentro a un bunker. Gli occhi dell’insegnante debbono fare più fatica per raggiungerti e sotto il banco puoi anche giocare alla Play Station (che pagherai poi nelle interrogazioni con un paterno due o con un più materno tre).

Nel Berretto a Sonagli, con la compagnia del Liceo “Leonardo”














Anche ai miei tempi si cercavano i banchi migliori. E sempre per lo stesso motivo. Non c’erano però le Play Station e i distraenti smartphone. C’erano i bigliardini e i flipper ma, per l’ingombro e il peso, non li portavi dietro per nasconderli sotto il banco (cominciavano a farsi strada i primi computer e i Commodore 64 che però in pochi avevano e in pochi sapevano usare).

Ricordi… 

Basta la vista o l’ascolto di qualcosa, come un vociante gruppo di studenti, che ritorni indietro di 35 anni, al tuo primo giorno di scuola. Ti rivedi dietro la folla di ragazzi già da tempo posti a presidiare il primo plesso del Liceo Scientifico Statale “Leonardo” di Agrigento, quello che ospitava gli indirizzi sperimentali (posizionato proprio sotto l’ospedale psichiatrico). Io, dopo i tre anni alla media “Luigi Pirandello” di Via Acrone  mi ero iscritto allo sperimentale artistico.
Volevo diventare artista, come mio padre.

A Parigi, dentro un vespasiano, in gita d’ultimo anno

















Ricordo l’emozione di quel giorno che mi avrebbe portato a fare tante straordinarie esperienze artistiche e anche teatrali, fino alla gita a Parigi col mio primo volo in aereo e al primo selfie dentro un vespasiano. Centinaia di ragazzi davanti a me che già si conoscevano e che sapevano dove andare e che ci guardavano dall’alto verso il basso considerandoci pivellini. C’erano anche altri ragazzi della mia età che sarebbero poi diventati miei compagni di classe e amici per la vita. 

Ecco farsi avanti un insegnante inviato in avanscoperta dal preside (allora era l’ultimo anno di Vincenzo Sambito a cui poi è subentrato Salvatore Di Vincenzo). Ha diversi fogli in mano. Ci guarda e comincia e chiamare i nuovi arrivati uno ad uno, in ordine alfabetico, specificando la destinazione della classe. I battiti del cuore aumentano all’avvicinarsi della lettera con l’iniziale tuo cognome. In attesa del tuo turno, hai il tempo per osservare i colleghi pivellini e fare la prima battuta per una combinazione molto insolita di un nome e di un cognome, con conseguente rossore della ragazza chiamata, che guadagna la porta facendosi largo tra sorrisini. Arriva pure il mio turno.

Uno dei miei primissimi disegni a china del liceo “Leonardo” del 1983

 













L’insegnante chiama pubblicamente il mio nome che non sento perché stordito dal rumore del cuore che batte all’impazzata. 
Vai! 
Cerco a fatica la classe che mi assegnano, senza alcun ausilio di mappe tecnologiche. Entro con timidezza nell’aula e siedo nel banco trovato libero, col compagno delle scuole medie che intraprende il mio stesso cammino. 
Mi sistemo senza fare discussioni. Nelle prime classi c’è ancora il silenzio della prima volta. Ci vorrà ancora tempo per conoscersi, familiarizzare e far sbocciare autentiche amicizie. Nelle classi superiori, invece, è tutt’altra musica. Si arriva anche alla lite per un banco o per un amore conteso.
Ed eccola la prima campanella!
Il suono riecheggia ancora dentro di me e si riaccende ogni anno quando inizia (per gli altri) la scuola.
Raimondo Moncada

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