Ho trascorso un giorno di festa, con amici di vecchia data, su uno dei punti più alti della mia natia città, Agrigento, a rimirare un panorama unico e a fare una schiticchiata. Prima, tanti anni fa, rimiravo lo stesso panorama dalla mia casetta di Vicolo Seminario, sotto la Cattedrale. Poi, trasferitomi al Villaggio Mosè (allora un deserto), ho continuato a rimirare il paesaggio dall’ultimo piano del liceo scientifico “Leonardo”, circondato dagli ospiti del soprastante manicomio (allora aperto).
Due visioni quasi identiche, ma non sovrapponibili. Simili perché in entrambe vedi il mare “aspro africano”, vedi una costa che ti apre il cuore, vedi la Valle dei Templi che, nonostante i miei cinquant’anni di familiarità, non mi stanco mai di vivere con meraviglia.
Un inciso legato proprio alla Valle degli Dei, prima di riprendere il ragionamento…
Sono fortunato. I miei polmoni hanno respirato storie millenarie, con i profumi dei mandorli e degli ulivi secolari e anche di caracitula. La mia anima è stata ristorata dalle sottili ma potenti energie che dalle profondità di questo protetto sito sono emerse coprendo tutto di magia assoluta. E ogni volta che ci passo con la macchina non vedo altro, mi sforzo di non vedere altro, quello che noi umani abbiamo costruito attorno alle divine pietre arenarie. Entro in questo spazio senza tempo, di silenzio, di arte, di religiosità, e ne esco un altro uomo (sempre con la stessa carta d’identità).
Chiudo l’inciso e riprendo il ragionamento iniziale…
L’elemento che differenzia le due visioni lo colgo dal terrazzo dell’amichevole schiticchio, proprio sopra uno di quegli edifici (che alcuni storici hanno battezzato “tolli”) che dalla mia umile casetta di Vicolo Seminario disturbavano l’originaria e netta visione che da tutte le abitazioni del centro storico si godeva prima del fervore cementizio. Dal terrazzo dello schiticchio – con i sensi di vertigine che ogni volta mi disturbano a certe elevate altezze –, ho rimirato per intero, senza più altri vastasi grattacieli davanti, il paesaggio marino con un punto di vista così nuovo e inaspettato che sono rimasto per ore stordito e sbalordito, non riconoscendo dall’alto i luoghi della mia vecchia città: da Piazza San Francesco, a Via Atenea, fino a scorgere uno spicchio di campanile del Duomo. E poi a sud, davanti a me, la Valle dei Templi, San Leone, Porto Empedocle, Punta Bianca…
Uno spettacolo da non credere per non dire vastaso.
Ritraendo lo sguardo, gli occhi si sono poi fermati sul grande budello di cemento armato sospeso in aria e sospeso pure alla circolazione veicolare. Parlo del budello meglio noto come Viadotto Morandi. Un’infrastruttura utile, comoda e molto funzionale alle esigenze del moderno traffico di auto moto bus e camion tranne treni, che in pochi minuti ti collega Agrigento a Porto Empedocle e alla strada statale per Sciacca e Trapani. Una infrastruttura che funge anche da circonvallazione. Un’opera pubblica che è stata tanto criticata nel tempo e presa pure a male parole perché, tra l’altro, alcuni piloni poggiano nell’area di una necropoli greca. Con le stesse male parole, una personasarebbe subito collassata. Il Viadotto Morandi no!
Sul terrazzo vastaso (per estatica bellezza) l’ho guardato in tutta la sua lunghezza, seguendone con gli occhi il tragitto più e più volte percorso con mezzi meccanici. In pochi secondi ho così collegato Agrigento a Vigata. Ma ho anche a lungo meditato (scattando delle foto), stimolato dalla distanza, dall’altezza e dal nuovo inaspettato punto di vista.
Da qualche mese, il ponte è chiuso al traffico a seguito dell’allarme sicurezza sulle condizioni degli acciaccati piloni. Dall’alto e a distanza, non noti i segni di sofferenza. Vedi, comunque, una strada inerme e provi come uno strano senso di compassione per il suo stato, per la sua ormai avanzata età, per l’inutilità che una chiusura forzata comporta.
Mi ha fatto pena, va. Peggio di un reperto archeologico di cui si sconosce l’autentico valore.
Alla fine ti affezioni alle cose, per umana familiarità. Ti affezioni anche al Morandi e lo usi e lo percorri da un senso e dall’altro, senza pensare ad altre strade. E lo fai dimenticando, nell’attraversamento, nella sospensione in aria, e nel godimento del panorama mozzafiato, che il Viadotto Morandi è sempre stato un pugno nell’occhio rispetto alla pura visione del circostante paesaggio naturale, archeologico e marino.
Perché – sinaono chieste le nostre teste di automobilista, di motociclista, di camionista, di bussista – fare un’altra strada più lunga quando c’è una strada più corta?
L’alternativa sarebbe stata combattere per il suo costoso smantellamento (e prima ancora per non farlo realizzare). Ma non da soli. Da soli, a pala e picu, ci vorrebbero secoli. E Madre Natura non ci ha dato tutto questo tempo.
In attesa di decisioni o di interventi a salvaguardia della solidità del ponte e dell’incolumità degli attraversanti, io una soluzione a breve termine ce l’ho. Ed è magica. Dovremmo cambiare prima il nome del ponte chiuso da Morandi a Sesamo. Fatto questo adempimento burocratico, chiamerei a raccolta quanti hanno bisogno del viadotto e farei all’unisono recitare l’inossidabile e garantita formula: “Apriti, Sesamo!”.
Raimondo Moncada
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