Veniamo ormai giudicati, disprezzati, mortificati e uccisi per un colore diverso.
Ma veniamo giudicati anche per un credo, una fede, un ideale;
Veniamo giudicati per i capelli ricci e non lisci;
Veniamo giudicati per le nostre origini;
Veniamo giudicati per un’appartenenza;
Veniamo giudicati perché veniamo da un’altra nazione, un altro paese, un altro quartiere, un altro condominio, un altro gradino, un sud qualsiasi;
Veniamo giudicati se ci esprimiamo in dialetto e non nella lingua di tutti gli altri;
Veniamo giudicati se indossiamo un maglione da quattro soldi comprato al mercato mentre altri indossano maglioni con la marca più grande del maglione;
Veniamo giudicati se non sfoggiamo la cultura dei libri che contano;
Veniamo giudicati se non abbiamo un titolo da esibire che dimostra che sappiamo fare quello che sappiamo fare;
Veniamo giudicati se abbiamo i brufoli, il naso storto, la voce stonata, la statura non a norma, la pancia oltre la cintura, una sola gamba;
Veniamo giudicati, disprezzati, mortificati e uccisi se siamo un gatto nero e non rosso o bianco o giallo o cirricaco.
Non veniamo giudicati per quello che siamo: esseri umani, uguali e diversi, buoni o cattivi, belli o brutti, non in base al colore, all’odore, alla voce, alla forma, al contenuto, alla materia cerebrale che è grigia per tutti o all’anima che è invisibile per ogni abitatore del pianeta Terra.
Non condizioniamo il giudizio col pregiudizio.
Anzi non giudichiamo proprio.
Leggiamoci con gli occhi trasparenti di un bambino.
Raimondo Moncada
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