Noi anime fragili e frangibili

Noi, anime fragili. Noi esseri di vetro, da maneggiare con molta cura perché siamo né più né meno come i bicchieri: se non siamo delicati con loro, si possono rompere in mille pezzi. 

La vita mi ha insegnato che ci sono bicchieri che resistono agli urti e bicchieri che non resistono, anche tra i bicchieri infrangibili che per loro natura non si dovrebbero rompere. 

La causa, ho capito dopo leggendo e chiedendo, è da ricercare nelle microlesioni che non riusciamo a vedere, perché sono così piccole da essere invisibili all’occhio umano come quelle dentro di noi. 

Ecco perché noi esseri umani – perfetti e allo stesso tempo imperfetti – ci possiamo paragonare ai bicchieri di vetro: ne esistono di frangibili, di infrangibili e di apparentemente infrangibili. 

Per questo bisogna sempre maneggiarci e farci maneggiare con cura, a qualsiasi età (da piccoli, purtroppo, non ci possiamo difendere e subiamo, subiamo, subiamo affidandoci ciecamente alla bontà degli adulti che non sono tutti uguali, che non sono tutti attenti, amorevoli, sereni, lucidi, realizzati, felici, sintonizzati ai bisogni dei più deboli, dei più vulnerabili). 

Ci sono persone che non si rompono, che hanno il potere di superare subito o col tempo ingiustizie, angherie, violenze, abusi fisici, abusi emotivi, traumatici stravolgimenti nella propria esistenza… 

Ci sono persone che invece non riescono, non hanno la capacità di staccarsi anche da eventi avvenuti decenni e decenni prima: 

la guerra, la distruzione, la perdita di casa tua, la perdita di un tuo caro, il precipitoso viaggio della speranza,  il distacco forzato, la lotta per la vita e per la sopravvivenza; 

le dure sbarre del cancello dell’aeroporto del tuo paese, dove ti hanno costretta a toglierti i gioiosi vestiti alla moda e a far sparire il tuo sorriso dentro un lenzuolo da fantasma e a consegnarti al primo padrone con barba e mitra dopo aver consegnato tuo figlio al soldato dell’altra parte del mondo che per vent’anni ti ha illusa con un sogno svanito in una notte. 

Pur cambiando realtà, ci sono bambini che si portano dietro, come una perpetua condanna, l’immagine della famiglia e di casa dove manca tutto, dove non mangi, dove non vieni curato, dove non sei vestito, dove non giochi, dove non sei incoraggiato, apprezzato, sostenuto, protetto, difeso, amato. 

E ci sono bambini abbandonati; bambini venduti; bambini violentati da chi dovrebbe accudirli con naturale amore; bambini dilaniati da un pazzo che si fa esplodere in nome di chissà quale dio. 

Ci sono genitori che si ritrovano dall’oggi al domani senza più un soldo in tasca perché la pandemia ha chiuso loro l’attività di famiglia e la disperazione è così soverchiante che pensi con impotenza al futuro dei figli e non resisti al peso di non potercela fare. 

Ed è tutto questo a creare microlesioni. E non vivi più come le persone normali perché ti svegli di soprassalto nel cuore della notte; perché ti senti in pericolo; perché ti senti minacciato da uno schiaffo, un rimprovero, un bicchiere che vola, uno sparo, una bomba; perché tutto diventa difficile, impossibile, pesante, anche le cose che prima facevi con facilità e felicità. E pensi pure che sia tutta colpa tua. E pensi che ci sia sotto un destino crudele che a te toglie e agli altri dà. E pensi che ci sia pure un dio che fa delle selezioni: tu sì, tu no, tu sì, tu no, come Mengele ad Auschwitz. 

E pensi di avere qualcosa di rotto nel tuo cervello e ti chiedi: “Perché succede? E perché a me?” 

Ti ritiri da tutto e da tutti. 

Sei a terra, e non sai come ricomporre il bicchiere in mille pezzi sul pavimento, che sei tu, che è la tua vita. E, frantumato nell’anima, sei attraversato da assurdi pensieri. Speravi che prenderne coscienza, scriverne, parlarne pubblicamente, dare continua testimonianza prosciugasse il pozzo delle lacrime. E invece no. Una parola, il suono di un motivo, l’odore di carne che brucia nel giardino di una famiglia in festa, ti fa rivivere la tua cattura da animale, la tua deportazione nei campi di concentramento, la brutale violenza dell’uomo che inforna altri uomini, ridotti prima in carne e ossa, fantasmi senza lenzuolo e senza più luce negli occhi. E ti lasci cadere nel vuoto delle scale, già rotto dentro, pur essendo trascorso quasi mezzo secolo da allora. 

E lasci traccia dell’orrore vissuto e mai dimenticato, scrivendo Se questo è un uomoche, assistendo inermi a quello che accade in altre parti del mondo, potremmo cambiare in Se questa è una donna, Se questo è un bambino, Se questa è umanità.

Perché noi uomini, voi donne, noi bambini, noi esseri umani, non siamo bicchieri infrangibili. Ci urtano, ci calpestano, ci fanno cadere, ci buttano a terra e ci rompiamo perché anche la sopportazione, anche la cosiddetta resilienza, ha un limite. E ognuno ha un proprio limite. Anche se facciamo finta di niente. Anche se per paura o per vergogna non parliamo dell’abuso subito; della minaccia che ci è arrivata; dell’inaspettato fallimento che ci ha fatto esplodere; della nostra creatura venuta al mondo con una grave disabilità; del fidanzato o del marito violento che ci hanno ridotto il volto a sangue; delle urla e dei continui litigi tra mamma e papà; dei mostri con i quali siano cresciuti e viviamo.

Se ne dovrebbero accorgere i vicini, gli insegnanti, i parenti, gli amici, i compagni di banco. Ma non leggono lo sconvolgimento del tuo volto mentre scendi le scale del condominio, non interpretano in classe il tuo disimpegno scolastico, non vedono la tua sempre crescente solitudine, non ascoltano i tuoi sempre più rumorosi silenzi, non notano il tuo ritiro dalla vita. Si rassicurano dalla foto sorridente che hai da anni sul profilo Facebook e dai tuoi post che fanno ridere. 

O se trovi il coraggio di parlare delle molestie che subisci, degli attentati che subisci, danno peso alle tue denunce solo quando sei raggiunta da una pallottola in testa. E dopo è un bombardamento di solidarietà.

Sei spezzato!

Invece per loro, per chi ti circonda, va tutto bene. Perché si vive in un mondo distratto, in un mondo che ti passa davanti veloce, in un mondo che non si ferma a guardarti negli occhi, ad avvertire i tuoi tremori che sono lo choc della violenza subita e che rimane dentro di te, come lesione che si allarga e sanguina sempre di più, nonostante le carezze e gli abbracci di chi ti vuole veramente bene, fino a quando capisci e decidi di uscire dall’incubo, dalla perenne prigione e di prenderti cura di te. Perché se non sei tu a prenderti cura di te, nell’oscura profondità del tuo essere, non lo farà nessuno. Solo tu senti il dolore dell’invisibile lesione che si allarga si allarga si allarga e sanguina e ti frantuma. Solo tu puoi ripararla, tu anima fragile e frangibile. 

Riparala, riparati e non permettiamo più a nessuno di rompere il nostro bicchiere di vetro.  

 

Raimondo Moncada

Tratto dal monologo scritto per la cerimonia di premiazione del concorso “Raccontami, o Musa”, edizione 2021, promosso dall’associazione Musamusia di Licata, e dedicato al tema “Noi, anime fragili

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