Lettore del Vg di Teleacras negli anni ‘90 |
Trent’anni fa. Il 23 maggio 1992 avevo venticinque anni ed ero a Raffadali, con Lucia e i suoi genitori Tonina ed Enzo, che dopo sarebbero diventati mia moglie e i nonni di Luna, mia figlia. Questo per dire che la vita per me, per loro e per tutti gli altri, è andata avanti, di anno in anno, con in mezzo gli anniversari, a ricordarci sempre quel giorno.
Io ricordo dov’ero, con chi ero in un pomeriggio di rilassamento, di pace, nella campagna di Butermini. Allora lavoravo come giornalista a Teleacras e prestavo pure il mio mezzobusto alla lettura delle notizie più efferate. Il mio turno era quello del VG pomeridiano, delle 14:05. Leggevo e rientravo a casa, per pranzare, riposare, darmi alle passioni, costruire il mio futuro, pensare alla famiglia che mi sarei fatto. Le brutte notizie quotidiane del telegiornale le lasciavo alle spalle, le inserivo nel vortice dell’oblio, le dimenticavo. Non puoi lasciarti appiccicate tutte le brutte notizie in quantità industriale. Lo sforzo almeno era quello. Alle tante, tantissime notizie lette al Vg, emotivamente rilevanti, non riesco a legare il fatto di cronaca alla data quando è avvenuto, non riesco a rammentare cosa facevo, con chi ero, dov’ero. Il 23 maggio 1992 fa eccezione. Ero tra i divani di casa Alessi, a circondare la tv e il camino e le mensole con i trofei di teatro, locandine di decine di spettacoli come Passione di Michele di Pippo Fava e Contro la mafia. Una voce, d’un tratto, a squarciare quel momento di serenità familiare, dice: “Ma avete sentito? È vero?”
“No, non è possibile!”
“Non ci credo”.
La sentenza di condanna era stata eseguita. Gliel’avevano giurata, lui lo sapeva, lo sapevano tutti, lo sapevamo tutti, ma sembrava qualcosa di impossibile, di irrealizzabile. Ma come posso arrivare a colpire un uomo dello Stato, uno del suo spessore, uno che si è così esposto, uno che ha lottato Cosa nostra a viso aperto, facendo semplicemente il magistrato, il suo dovere, non tirandosi mai indietro di fronte alle minacce, alle continue delegittimazioni, di fronte alle naturali paure dell’uomo, così come altri rappresentanti dello Stato, come il suo amico Paolo, come i suoi agenti della scorta che si davano il cambio per provare a difenderlo in un clima che si faceva di giorno in giorno sempre più pesante e che cominciava a puzzare di tritolo?
La teca con una delle auto saltate in aria nella strage di Capaci |
L’impossibile è diventato possibile, l’irrealizzabile realizzabile, con un’azione militare ad alta precisione, eclatante, mai vista prima, con un’organizzazione militare che dichiara guerra allo Stato, sfacciatamente, come se nulla fosse, forte della sua forza, senza considerare le conseguenze o forse non prendendole neanche in considerazione, per un senso di invulnerabile onnipotenza: “Possiamo colpire chiunque e ovunque”. E poi la conferma, da quel televisore che prima era spento, con le prime immagini che arrivano dall’autostrada Punta Raisi-Palermo, con quel cratere che sembra di stare in Ucraina, con quelle macchine accartocciate che non danno speranza di salvezza.
“Alle ore 17,58 …”
Toccherà pure a me leggere la notizia, e questa volta non con la freddezza del distacco professionale, ma con malcelata partecipazione, trattenendo a stento il turbamento. Non puoi piangere, non ti è consentito.
“… un attentato di chiara matrice mafiosa, con una quantità imprecisata ma impressionante di tritolo, ha tagliato in due l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo nel momento in cui, nei pressi dello svincolo per Capaci, passava l’auto blindata con il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e il loro autista Giuseppe Costanza; e le auto degli uomini della scorta con Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro …”
I resti della Fiat Croma blindata, in codice Quarto Savona 15, a bordo della quale c’erano i poliziotti della scorta di Falcone |
Immagini su immagini, per minuti, per ore, per giorni, per anni; emozioni, gelo, rabbia, incredulità, impotenza, rassegnazione, sfiducia, silenzio. L’altra Sicilia ammutolita. Sembrava proprio aver perso, sconfitta su tutta la linea, con l’uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino in un culmine di inarrestabili attentati contro tutti, contro chi osava mettersi di traverso, magistrati, appartenenti alle Forze dell’Ordine e poi giornalisti, presidenti della Regione, testimoni…
“Non cambierà mai niente”.
“È finita!”
E invece qualcosa è successo. La timida fiammella è diventata fuoco. Il sacrificio di Falcone e Borsellino, uomini soli e isolati nella loro azione rivoluzionaria, non è stato vano. L’altra Sicilia ha reagito con più coraggio, trovando quella forza che prima non si era vista con tale impeto ed estensione, contagiando via via tante coscienze, costruendo una nuova cultura antimafia dal basso, dalle anime pure, dalle scuole, dai più piccoli, cresciuti in questi anni con le foto e le parole e l’esempio di veri eroi siciliani, in classe, nelle loro camerette e nella loro vita.
Certo, trent’anni sono tanti per qualsiasi evento della nostra storia. Bisogna chiedersi cosa è rimasta di quella spinta emotiva della società civile, della reazione dello Stato e di quella mafia padrona dei tempi di Falcone e Borsellino e di come si è eventualmente mascherata ed evoluta. Un’analisi seria, approfondita, senza retorica, per non abbassare la guardia e proseguire la lotta, anche culturale, nel nome di chi ha perso la vita per un ideale, per un ruolo che hanno vissuto fino in fondo, fino alle estreme e consapevoli conseguenze.
Raimondo Moncada
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