“Ci la salamu?”
Quando incontri amici di vecchia data con i quali hai condiviso tanti momenti della tua crescita, si finisce col rievocare con nostalgia la vita che fu e fare pure i paragoni con l’oggi.
“Ci divertivamo con niente. Ora i ragazzini sono tutti al cellulare, mangiano e digitano, mangiano e si vedono video, mangiano e giocano alla playstation”.
E tra le rievocazioni ieri sera, tra gli amici che sono venuti da Agrigento a Sciacca a trovarmi, per augurarci di presenza un buon anno, è uscita fuori, non so perché, anche la salagione (detta in intaliano) che non era un gioco che faceva piacere a tutti i partecipanti. Era comunque un modo goliardico per ridere, in gruppo, tra amici che amavano stare assieme e si godevano la vita senza l’onnipresente e soverchiante elettronica.
Ma cos’era e come si svolgeva questo gioco?
Si procedeva prima a individuare segretamente una vittima sacrificale tra il gruppo, così di scatto, senza dare il tempo di pensare, di reagire, di scappare. E lo si faceva o riunendosi velocemente senza far capire niente alla vittima oppure schiacciandosi l’occhio d’intesa indicando chi dovesse finire sotto salatura. Ma poteva bastare anche una proposta gridata a sorpresa:
“Picciò, ci la salamu a…”
E si correva tutti quanti per bloccare l’amico, suo malgrado al centro del gioco. Ognuno provvedeva a prendere e bloccare una parte del corpo (un braccio, una gamba…) per consentire al salatore ti turno di condire o panare una parte a scelta (che poi era sempre la stessa) senza il disturbo di movimenti inconsulti del destinatario che poteva anche non gradire (non a tutti piacevano cotante corali attenzioni e, soprattutto, il sale).
“Tenilu! Tenilu!”
E giù risate, dei salatori e del salato.
Che poi si diceva “ci la salamu” ma non si prendeva il sale. Almeno sotto i miei occhi non è mai passato il sale. “Ci la salamu” era solo un modo di dire, una proposta ludica. Se si arrivava all’accordo bastava anche un po’ di terra se si era su un campetto di calcio (ovviamente senza erba) o un po’ di sabbia se si era in spiaggia schiffarati (senza niente da fare). Lo si faceva non per male, non per sadismo, ma per dare una scossa alla monotonia o perché brilli da quell’energia adolescenziale che ti porta a fare cose che in età adulta non faresti mai perché “metti sensu” e perché perdi, crescendo, quella sana e incosciente voglia di sorridere alla vita, di gustartela, di mangiartela con niente, facendo merenda anche con un po’ di passuluna grattate su un pezzo di pane.
“Sì, salamuccilla!”
“Forza ddocu!”
E poi tutti in acqua – se nelle vacanze estive – a continuare a ridere carichi ancora di adrenalina.
La vittima designata non era mai la stessa, cambiava, si faceva a turno. Magari il proponente era lo stesso che la scorsa volta era stato sottoposto a salatura, come le squisite sarde di Sciacca esportate in tutto il mondo (perché le nostre parti corporali sottoposte a salagione non sono mai state richieste dai mercati internazionali?).
Ricordi di un tempo che fu, ma che vibrano dentro di te e che basta un niente per accenderli. Pezzi di memoria viva che vengono fuori, con naturalezza, davanti a una pizza con amici con ci vedevamo in giro per campetti di Agrigento a tirare un calcio a pallone o al Viale della Vittoria a passeggiare o a progettare le nostre esistenze disegnandole con i nostri desideri desideri di allora. E ora da padri di famiglia, con più del doppio di quell’età, con le pance da mancanza di pallone, con i capelli bianchi, con le coppole a dare conforto alla testa, con il passo maturo dell’età, aggiornandoci con serietà paterna sui nostri figli che fanno l’università, rievochiamo quei nostri momenti.
“Ti ricordi quando siamo venuti a Sciacca per Carnevale?”
“Sì, avevamo diciannove-venti anni”.
“Ricordo che eravamo neo patentati…”
“Dovrei avere sotto mano, da qualche parte, un sacchettino di foto di quel periodo, ma non so dove… Debbo vedere. Uno di questi giorni cerco e condividiamo via Whatsapp quei momenti…”
“Sì, sarebbe bello”.
E uscendo dalla pizzeria per andare a prendere le macchine e rientrare a casa ore e ore prima rispetto ai nostri orari giovanili, prendo il cellulare e faccio vedere le foto che per Whatsapp mi ha inviato per l’Epifania un amico giornalista con il quale abbiamo anche condiviso l’indimenticabile esperienza del gruppo folk con la Vallata e il Gergent (esperienza che questa volta abbiamo esportato come le sarde, il corallo, la ceramica di Sciacca).
E c’è un’immagine con una delle tante formazione domenicali con cui giocavamo al campetto di calcio nel lungomare (“Picciò, cu veni dumani a San Leò?”) sudati di fatica, di felicità e di salsedine. E c’è la foto di quando abbiamo festeggiato un 8 marzo vestiti (tre maschi) da donne sexy che ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni ci vogliono occhi per ammirare cotanta fresca e lontana bellezza.
Risate prima di lasciarci e ritornare dentro le nostre attuali esistenze, magari rientrando dentro le corazze di persone serie, di professionisti rispettati, di educatori attenti, di genitori premurosi con però dentro un passato per fortuna non ingessato che pulsa ancora e che non puoi comprimere.
“Picciò, ci la salamu?”
“Forza ddocu!”
Santi subito.
Raimondo Moncada
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