Invasi da trippa con leva straniera

“Mangiari di strata”. Ecco l’esatta traduzione di un evento culinario che sta avendo sempre più successo, richiamando gente da ogni dove e da tutti i ceti sociali, dall’infimo all’elevato. “Mangiari di strata” è però solo una traduzione personale, affettiva anche, di un fenomeno sempre più di massa e trasversale. Non è questo (“mangiari di strata”) il nome che in Sicilia, nella terra della lingua siciliana, si è dato alla popolare manifestazione mangereccia.

Ricordo, piccolino, a “Bibbirria”, ad Agrigento, ai piedi della Via Duomo, nel quartiere dove sono cresciuto, un tizio che si metteva con la propria macchina a vendere in strada frattaglie, o meglio “robba cotta”: sangunazzu, zirenu, trippa, pedi di porcu (riporto i nomi siculi per come li mangiavo con miei genitori e a casa di mia nonna Rosina, nella discesa Seminario, sotto la maestosa cattedrale). Nel portabagagli di una Fiat 850, il tizio teneva quattro pentoloni fumanti avvolti tra coperte di lana, con dentro ogni tipo di squisitezza, in bianco o condite con sugo e patate. Da leccarsi i baffi! Gesto che facevano pelosi adulti e glabri bambini. 

Non ricordo, persone in giacca e cravatta avvicinarsi al tizio per chiedere un pezzo di sangunazzo da mangiare al volo, scolanti, seduta stante. Magari passavano con la bava alla bocca davanti la macchina avvolta da una nuvola odorosa, ma non si avvicinavano. Io mi avvicinavo, così come mi avvicino alle “resistenti” putie fisse o ambulanti che vendono panini con meusa, stigghiola, salsiccia, panelle, crocchè, melanzane fritte, ma anche arancine e altre bontà.

Un tempo non si usavano inglesismi, americanismi, francesismi, terminologie incomprensibili prese a prestito da altri paesi stranieri, di cui si sconosceva (e si sconosce) il significato ma ti arriva la dolce musicalità. Oggi i forestierismi si usano per tutto, pure per mangiare e bere e fare i bisogni (ci chiudiamo nella toilette per fare un break e sfogarci). 

“Mangiare di strata” viene così tradotto con “Street food”, espressione molto più elegante, fine, raffinata, pulita, igienica, digeribile anche nonostante la frittura (da liceale scherzavo sempre con gli amici: più l’olio è fituso, usato, nero, simile a quello tolto da un vecchio camion in manutenzione, più è garanzia di squisitezza!). Trovo tabelle e insegne con la dicitura “street food” esposte sempre di più in attività a posto fisso (putie) o ambulanti (ci sono pure lape e laponi di “street food”).

Con la leva straniera siamo così invasi da venditori di trippa nostrana e panini chi panelli in salsa siciliana, che fanno a gara a colpi di Sicily ketchup per ottenere un posto riservato in una fiera di “street food”. Il successo è infatti garantito. Si è creato una sorta di turismo da “street food” (trippa per le nostre trippe!) per panze che rinviano il giorno di inizio della dieta. Soddisfazioni a tinchitè!


Lo stesso meccanismo si potrebbe usare per altro, per promuovere la cultura (“street library”), la socialità (“street community”), la sartoria (“street jeans” che non vuol dire “pantaloni stretti”!).

Il tizio della “Bibbirria”, modernizzato, usando l’espressione “street food” per la propria trippa, si sarebbe arricchito. Avrebbe chiesto al Comune il permesso per l’occupazione del suolo pubblico e occupare legalmente, con pentoloni di  interiora, il centro storico di Agrigento. Il mio natio quartiere, vivo, di robba cotta. 

 

Raimondo Moncada

www.raimondomoncada.blogspot.it

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