Dai brufoli alla scrittura dei punti neri, la prima autointervista di Raimondo Moncada

Raimondo Moncada si autointervista
Mi incontro in una sera fredda d’estate, spazzata dal vento e spezzata da un meteo impazzito che ha tolto ai vacanzieri il piacere di godersi le vacanze nell’anno 2014. Ci sediamo sotto il ricordo della chioma del pino di Pirandello, a poche decine di metri dalla casa natale del Caos dell’infinito drammaturgo. Ci ritroviamo per la prima volta per un’autointervista a cuore aperto e anche a bocca aperta. Parliamo di scrittura, di sacre scritture, di fatti intimi, di igiene intima, di passato e di futuro fino a giungere all’aldilà. 
Eccomi! A tu per tu col mio tu, senza tutù.

Chi sei? 

Mi hanno chiamato Raimondo ed essendo stato generato in Sicilia da mio padre, Gildo Moncada, mi hanno registrato all’anagrafe del Comune di Agrigento con il suo bellissimo cognome spagnolo. Se fossi nato in Inghilterra, avrei preso anche le generalità di mia mamma Sara Vaccaro. Non mi sarei chiamato ovviamente Sara, ma Raimondo Vaccaro Moncada. Se fossi nato in un paese nonnista, mi sarei chiamato Raimondo Vaccaro Sarullo Gueli Aletti Moncada, sintesi dei cognomi dei nonni materni e paterni. 

Cosa ricordi della tua genesi? 

Sono nato in un momento di felicità. Un’unione astrale, con i pianeti a favore, con tutti gli astri allineati nell’universo. E questo mi conforta. Sono stato voluto, cercato, concepito con tutti i sentimenti. Emozionante venire alla luce, specialmente se sai che qualcuno ti ha donato la vita. Quando non sei voluto dalle nostre parti si dice nato a “scanciu” o “pi sbagliu”. Non è il mio caso. Sono la sintesi, per osmosi, di due forti personalità. 

Cosa pensi della tua vita? 

Ancora non è finita. I bilanci si fanno alla fine. Quel giorno spero di non esserci. Mi tocco, anche se toccarsi non basta. Ma ha la sua magia, la sua intoccabile tradizione che affonda le radici nella toccante notte dei tempi. 

Cosa pensi della morte? 

Bene non ne posso parlare. Fa soffrire. Al di là c’è un’altra vita? Me lo auguro. È dalla nascita che ne sento parlare. Non vorrei essere deluso. Vorrei ritrovare persone a me care e avvicinare personaggi conosciuti sui libri di storia e geografia. Gli darò del tu. Lassù siamo uguali. 


Inferno, purgatorio o paradiso? 

Ognuno ha i suoi pro e i suoi contro. Vorrei avere la libertà di andare sempre in tournée per non annoiarmi sempre nello stesso posto.


Quando ti guardi allo specchio che fai? 

Una volta mi cercavo i brufoli. Li contavo. Tenevo il registro della contabilità. Ero in una fase molto delicata, quella della maturazione di un uomo. Non mi potevo vedere con i brufoli. E più ne vedevo più mi sentivo male. Invece di concentrarmi sulle parti del mio corpo senza brufoli, vedevo solo brufoli. Vedevo metaforicamente brufoli anche in società. Poi ho cominciato a vedere anche altro. 

Cosa?
I punti neri.

E i brufoli? 

Sono spariti. Anche quelli mentali che alla fine erano quelli più sfregianti. 

Con i capelli sei messo bene? 

Ci volevo fare un monumento. Quello ai caduti. La rovinosa caduta dei capelli mi ha sorpreso e turbato prima della maggiore età. Cadevano e cadevano anche lontano dal periodo delle castagne. Poi la caduta si è arrestata. Per fortuna. Non mi vedo con la testa pelata anche se una volta, per provare, ho tagliato i capelli quasi a zero. Per rinforzarli.


Si sono rinforzati?
No. Li tengo attaccati, uno per uno, con lo spago. Funziona.

A pancia come sei messo? 

Questa domanda è profonda. Ci sono filosofie e religioni che ne fanno il centro dell’equilibrio. Io la lego alla presenza dell’essere. Da noi in Sicilia si dice “Eccomi qui! Panza e prisenza”. La panza è così presente in me che rende ancor più presente la mia presenza, in qualsiasi luogo. Anche in terre straniere. Non c’è bisogno di traduzione. La colgono al volo. La pancia è internazionale. 


Ti lavi?
Sì, quando me lo ricordo. E me lo ricordo perché quando sono sporco non posso starmi vicino. Mi irrito e comincio a grattarmi. Lavarsi è una esigenza intima, come la scrittura.

Cos’è scrivere per te?
È lavarsi per pulirsi interiormente. È scoprire e scoprirsi. È capire e capirsi. È tirare fuori il bello e il brutto che hai dentro. È zittire i mosconi che ti ronzano dentro. È cogliere la poesia della vita. È vedere lo straordinario nell’ordinario. È darsi una voce e una voce espressiva. È tirare fuori delle storie, quella tua, quella della tua famiglia, quella degli altri. È lasciare un’impronta. È crescere, maturare, evolvere. È soffrire e rendersi felici. È impegnarsi. È isolarsi per divenire l’eroe dei due mondi, trovando una via di comunicazione tra il tuo mondo interiore e il mondo che ti gira attorno da quasi mezzo secolo. 

Quando scrivi?
Scrivo quando mi capita. Ci sono momenti in cui scrivo sempre e ovunque a flusso continuo, inarrestabile. E momenti in cui non scrivo materialmente niente. Ma sento la macchina da scrivere nel cervello che batte da sola i tasti. Quando scrivo mi sento assalito da un demone in uno stato d’animo di felicità o di infelicità. Mi sento comunque eccitato. E mi sento comunque appagato dopo l’atto dello scrivere. La scrittura diventa incontrollabile. Può uscire di tutto dal buio del cilindro.

Quando hai cominciato a muovere i primi passi?
Ho cominciato quando ho avvertito il bisogno vitale di scrivere, a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ai tempi dei punti neri. Scrivevo di me, scrivevo di quello che mi accadeva, scrivevo per ricominciare, scrivevo per trovare una nuova luce, scrivevo per uscire da un tunnel, scrivevo per cambiare, scrivevo per liberarmi della cacca mentale, scrivevo sempre, in continuazione, ore e ore a battere sulle vecchie macchine per scrivere e poi sulle tastiere dei computer e poi su fogli di fortuna e su ogni tipo di quaderno. La scrittura all’inizio è stata un salvagente. Scrivevo per vivere. Poi ho incontrato casualmente il giornalismo, nel 1990. La redazione è stata una straordinaria scuola di scrittura. Ti costringe alla chiarezza, all’efficacia, alla sintesi, all’uso del linguaggio, di più linguaggi, a dare peso alle parole, a rispettare l’udito di chi ti ascolta e di chi ti legge. E a rispettare te stesso. Dalla scrittura professionale sono passato alla scrittura creativa cominciando a scrivere canzoni, racconti, opere teatrali, romanzi, battendo molto la strada dell’umorismo e della satira. 

Quando la finirai di rompere le scatole alla gente con quello che scrivi?
Finché ci saranno scatole, ci sarò io a romperle. Anche le mie e le tue scatole. 

Grazie per questa tua prima autointervista. Spero non sia l’ultima.
Grazie a te, per avermi sollecitato e ascoltato. Da quando ti sei messo ad ascoltarmi, noto che stai meglio. Alla prossima.

Raimondo Moncada 

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