Siciliani poliglotti per necessità

La nostra è una lingua. Parlo del siciliano, e ne parlo scrivendolo in italiano. È la lingua dei nostri padri, dei nostri nonni. La sentiamo parlare nei momenti intimi, d’amicizia, di famiglia o anche al bar o in pizzeria. Diciamo le parolacce pure nella lingua madre. Così come pensiamo nella lingua madre. 

La lingua siciliana, purtroppo, è rimasta chiusa nell’isola e noi siculi isolani, per sentirci italiani e uniti al resto del mondo, abbiamo dovuto imparare e parlare una seconda lingua.   

Siamo poliglotti per bisogno (l termine scientifico corretto dovrebbe essere “biglotti”, ma non ci metto la mano sul fuoco). Noi siciliani studiamo l’italiano a scuola, dimenticando la nostra lingua madre. Non studiamo il nostro siciliano nelle sue auliche espressioni letterarie, pur annoverando fior di scrittori e poeti siciliani nella storia della letteratura mondiale. Senza i nostri autori conterranei, le antologie italiane sarebbero povere. 

Purtroppo, dico ancora purtroppo, quando a scuola parlavo in siciliano o alternavo il siciliano con l’italiano mi guardavano male. E mi rimproveravano e mi abbassavano il voto e forse mi prendevano pure per volgare (il siciliano è la lingua del popolo). Ora, invece, chi parla anche il siciliano fluentemente è considerato dagli esperti linguisti ricco e intelligente e aperto e “allittrato” perché una testa eccelsa, con le sue opere, ha imposto a livello nazionale e poi internazionale, il suo vivo siciliano (parlo in italiano del maestro Andrea Camilleri). E lo ha importo con l’orgoglio dell’appartenenza a una terra da cui non si è mai staccato. 

Raimondo Moncada

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