Un quarto di secolo. Cos’è cambiato in un quarto di secolo nel centro storico di Agrigento? Il suo cuore pulsa ancora in un corpo che perde un pezzo al giorno?
Me lo chiedo ritrovandomi per caso tra le mani il settimanale “La Tribuna” del 2 febbraio 1991, saltato fuori da un armadio della mamma. In quel numero è uscito il mio primo articolo su un giornale cartaceo. L’ho scritto all’età di 24 anni alla fine del mese di gennaio di 24 anni fa, dopo un tuffo nel luogo che mi ha visto nascere e muovere i primi passi in un miniappartamento di 45 metri quadrati di Vicolo Seminario, sotto la protezione della Cattedrale di San Gerlando.
Ho l’onore di avere corredato il pezzo con grafici di mio padre, Gildo Moncada, che a quelle pietre ha legato la sua vita di uomo e di artista. Il servizio ha per titolo “Viaggio sentimentale nel cuore della vecchia Girgenti”. Ne ripropongo il testo per riflettere su quanto è cambiato da allora, dal 1991, da quando ho scritto il mio primo viaggio in un italiano dettato dal cuore.
Sono seduto su una panchina tricolore, linea terminale di una scritta a terra “forza italia”. Non c’è nessuno. Mi chiedo se veramente sono nel mio centro storico. Mi chiedo se realmente sono a San Giullà.
Piazza Don Minzoni è completamente congelata da un vento che fa vibrare perfino le antenne saldate della vicina radio diocesana. Non c’è anima viva. Ricordo il vociare festante di noi bambini serpeggiare con i nostri carrettini per quella discesa Duomo, ora completamente deserta. Solo una scolaresca riempie le gradinate della cattedrale, disperdendosi frettolosamente nei meandri di un cuore al quale è stata tolta l’anima. Un vecchio, riparato da uno scialle riccamente adornato, è appena uscito per riscaldarsi a quella insolita presenza. La moglie lo avverte di rientrare “altrimenti il latte si raffredda”.
È una fredda giornata di gennaio. Si ode solo il vento tra quelle pietre esanimi, sbattere qualche finestra lasciata aperta da chissà quanto tempo. Mi chiedo se è l’unica testimonianza vivente in tutta questa arida desolazione.
Scendendo per la scalinata di Via Raccomandata mi ricordo dell’allegra bottega di generi alimentari dove tutti noi bambini, prima di andare all’asilo dalle suore di Sant’Antonio, che non c’è più da qualche settimana, venivamo a farci il panino con la nutella che la signora Spirio attingeva da un coloratissimo contenitore di plastica.
Ora una porta scolorita, un muro dipinto da chiazze di muschio e da tremanti fili d’erba, un pezzo di tavola, con arrugginite targhette nelle quali resistono coraggiosamente quasi con orgoglio scritte “olio d’oliva”, “formaggio fresco”.
A dei passanti di colore chiedo se si trovano bene in un’architettura a loro familiare. Mi rispondono che hanno solo un tetto dove dormire e che poi non hanno modo di entrare in contatto con le poche persone rimaste.
Sempre davanti allo spazio della bottega, una volta riempito dal caldo profumo del pane del vicino forno, alla fine del tunnel dell’Arco di Spoto, completamente violentato da una maschera di intonaco, un’esile casina addossata pericolosamente a un edificio di due piani con evidenti segni di cedimento, richiama la mia attenzione.
Vi abita la zia Pina, della quale mi colpiscono le mani, rosse dalla malattia. Assiste suo marito gravemente ammalato, tenuto in vita dagli ultimi impulsi di un cuore profondamente legato, come fosse un’unica cosa, al cuore di quelle pietre.
Facendomi strada tra case abbandonate, porte sbarrate, cancelli incatenati, lucchetti arrugginiti, vengo disturbato dalla macchia sgargiante e stonata di una nuova “affacciata” che non ha nulla a che vedere con l’ancora dignitosa presenza delle circostanti case “vecchie”, parte integrante dell’antico tessuto cittadino.
Dopo avere attraversato, indisturbato, lo stretto corridoio di via Madonna della Neve, due ingressi aperti mi riportano a quella che era una volta questa parte di quartiere, riccamente adornato da profumatissime piante ai balconi, da trecce d’aglio, da tendine ricamate a mano, e da quella magica vitalità spontanea che rappresentava il soffio vitale di un quartiere abbandonato pure dall’illuminazione serale.
Salendo per la Via Santa Maria dei Greci, tra un “Si vende”, una falegnameria chiusa, balconi con vasi secchi, vengo nuovamente rivitalizzato dalla massiccia presenza di una scolaresca fermatasi davanti all’unica bottega di generi alimentari.
“Per noi ogni volta è una riscoperta”, afferma una delle insegnanti della scuola media “Quasimodo” di Monserrato, “però non possiamo pensare di recuperare un centro storico morto risanando la fatiscenza, ma cercando di aiutare quelle poche persone, per lo più anziani, o famiglie in attesa di nuova collocazione, rimaste isolate”.
“Con lo svuotamento umano del centro storico, abbiamo tolto l’anima al cuore di Agrigento, il cui tessuto può essere recuperato fisicamente, ma non avrà mai quella identità atavica se non porteremo le persone alle loro radici” incalza con tono rassegnato un volto emaciato di un vecchio passante chiuso dal freddo in una coppola nera e dentro una giacca evidentemente varie volte rammendate.
Sono gli ultimi suoni di una gelida mattinata di gennaio nel centro storico di Agrigento, profondamente provato e lasciato in balia di sofisticatissime macchine fotografiche ai cui comandi sono turisti dal biondo crine, tornati inconsapevolmente tra le mura della loro città. I normanni, gli arabi, gli spagnoli, vivono ancora qui. Per difendere un passato che può essere ancora il nostro futuro.
Raimondo Moncada
Pubblicato sul settimanale “La Tribuna” – 2 febbraio 1991, Anno 1, numero 13
Direttore responsabile Gerlando Gandolfo
Prezzo di copertina Lire 1.000
www.raimondomoncada.blogspot.it
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