Il marchio di fabbrica. Essere nati in Sicilia ti dà una denominazione di origine controllata. Ma non come il vino. L’enologico marchio Doc è sinonimo di qualità, è ricercato ed ha pure un costo elevato.
Essere nati in un’isola all’estremo sud dell’Europa e dell’Italia e al nord dell’Africa, ti contrassegna a fuoco con un bollo di infamia, disonore, vergogna: “Sei siciliano!” che è diverso dall’essere italiano.
Due notizie provenienti dalla civilissima Gran Bretagna mi hanno provocato un brivido in tutto il corpo. Oggi ho letto di un questionario rivolto a studenti di alcune scuole. Per indicare la propria geografica provenienza, ed essere così meglio classificati non si sa bene a che scopo, gli italici studenti (o rispettive famiglie) sono stati invitati a scegliere tra quattro sigle: “Ita” (Italian), ovvero italiano; “Itaa” – Italian (Any Other) ovvero altri italiani; “Itan” – Italian (Napoletan) per dire napoletani di nascita; e “Itas” – Italian (Sicilian) per dichiararsi esplicitamente siciliani senza possibilità di errore.
La richiesta della inusuale schedatura (che ha suscitato le ufficiali proteste dell’Ambasciata Italiana: “Siamo uniti dal 1861!”), si aggiunge alla notizia choc uscita una settimana fa. Un esponente del governo parlò di lista di lavoratori stranieri da far compilare alle aziende. Idea, al momento, pare messa da parte.
Ma cosa sta succedendo in Inghilterra, presa da sempre come esempio di ospitalità, di pacifica convivenza multietnica? Solo effetto collaterale della Brexit?
I due episodi si incasellano in un quadro di diffuse reazioni alle ondate migratorie. Un fenomeno che pure ci riguarda da vicino e sotto tanti aspetti. Ci sono italiani che, in Italia, si lamentano dell’emigrazione proveniente dal continente africano (non parlo di quella meridionale e di quella dei paesi dell’est). Ci sono inglesi che si lamentano delle migrazioni provenienti dal sud del mondo, compresa la Sicilia.
Un fenomeno che, stiamo vedendo, non dà segni di arretramento. Che sembra, anzi, essere ripreso con più forza, soprattutto nel sud. Tanti giovani decidono di lasciare, anche da noi, la propria città, le proprie famiglie, le proprie amicizie, le proprie radici, per andare a cercare fortuna all’estero. E in un momento di crisi economica globalizzata, questo viene visto come un furto: “Ci rubano il lavoro!”.
La Sicilia vive tante dimensioni: terra di approdo per migranti di terre straniere; terra di accoglienza di gente senza più terra; terra di nascita di nuovi migranti in cerca di altre fortunate terre.
L’isola, nel secolo passato, ricordiamocelo, è stata smembrata dalle forzate migrazioni in America, in Belgio, in Germania, in Inghilterra, dove sono ancora vive e numerose le comunità di italiani. Quanta fatica, quanto dolore, prima di trovare un lavoro, di essere accettati, di integrarsi.
È storia: di Sicilia, della provincia di Agrigento. Anche della mia famiglia.
Ora ci sono i figli della crisi, i figli della globalizzazione, i figli di nonni e bisnonni invecchiati all’estero, che si armano di buona volontà, che riempiono zaini di lauree e master, e cercano di raggiungere luoghi di cui si è sentito parlare, di cui si è letto su internet.
Nuove città, nuove miniere. Così si spera.
Si parte e poi si vede.
Ma l’atmosfera non sembra delle più favorevoli. Ed essere siciliano diventa pure un’aggravante all’essere migrante. Ed i confini mentali, con rigurgiti di pregiudizi duri a morire, si aggiungono a quelli fisici dove pure si innalzano muri sempre più alti, sempre più spessi.
Solo il vino Doc siciliano non conosce confini: passa senza passaporto, richiesto anche in quei paesi dove si registrano casi di manifesta o latente discriminazione.
Buona fortuna, mondo.
Raimondo Moncada
(nativo siciliano)
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