“Quest’anno non esco in processione. E molto probabilmente lascerò l’Italia”. Sono parole che mi spiazzano. Lui non è uno qualsiasi. Lui è San Calò, il Santo Nero miracoloso venuto dall’Africa. E quanto bene ha fatto e continua a fare ai suoi tanti, tantissimi devoti che lo adorano, ad Agrigento, a Naro, a Sciacca….
Nessuno dimentica quello che ha fatto e quello che ancora è in grado di fare, nonostante gli anni. Di generazione in generazione lo venerano, lo pregano, lo portano in processione, a spalla, sotto il sole cocente, dentro il forno di luglio.
“Si lu merita, cosi giusti. Perché continua, con la sua infinita generosità, a elargire a rispondere alle continue richieste di grazie. E lui, i miracoli, li fa davvero. È di palora”.
San Calò mi ha voluto parlare. Mi ha chiamato di primo mattino. Ancora dormivo. E tra il sonno e il primo risveglio ho dovuto prestargli ascolto. Era nero. E non per la sua pelle naturale o per la mancanza d’acqua che ai miei tempi, a Giurgenti, mi copriva di lurdìa .
“Ma non ne possiamo parlare dopo?”
“Ora!”
“Fammi fare almeno colazione…”
“È urgente”.
“Come dici tu”.
L’ho dovuto ascoltare, per rispetto, grande rispetto. Siamo rimasti a tu per tu per ore. Si è confessato. Lui, con me. Incredibile. Segno di umiltà.
“Perché hai scelto proprio me?”.
“Non c’è una ragione profonda. Avrei potuto scegliere anche qualcun altro”.
“Ma mi conosci, almeno?”
“Certo. So chi sei. Ti ricordo da piccolino. Quarantacinque anni fa abbiamo avuto un incontro ravvicinato. Ricordo quando ti hanno issato sulla vara, sei passato di braccia in braccia e tra i pianti mi hai baciato”.
“Ho un vago ricordo. Mi è rimasto il terrore nel corpo”.
“E poi tuo padre mi ha immortalato su una tela…”
San Calò sapeva tutto. Non ho chiesto nient’altro su di me per non diventare rosso toccando aspetti troppi intimi. Ci conoscevamo dalla nascita. Mia mamma mi portava da lui già in grembo. Nel pancione sentivo le vibrazioni dei tamburi che annunciavano il suo arrivo a San Gerlando, in piazza Don Minzoni, tra lanci di pane dai balconi e dalle scalinate della cattedrale. Sono cresciuto con il mito di San Calò. Ogni agrigentino ha un suo santino all’ingresso di casa, sulla macchina, sulla lapa, ovunque. Porta bene. Ti protegge. È uno di famiglia ed è più famoso e affollato di San Giullà, il santo patrono di Agrigento.
“Dimmi, santità…”, gli dico.
“Non chiamarmi santità”.
“Sua Eminenza?”
“Chiamami solo Calogero”
“Non arriverò a tanto. Ti chiamerò come ti chiamano tutti: San Calò. Ma non Santo Lillo che non si può sentire. Ok?”
“Mi fa piacere che parli anche una lingua straniera, americana, se non sbaglio. Ma parli anche la tua lingua natia, il siciliano, che ha dentro tante lingue del mondo”.
“Parlo bene la mia lingua e meno bene l’italiano. Per le altre uso Google Traduttore. A scuola le ho studiate poco e niente e ora mi mangio le dita. Sono un asino pentito”.
“In siciliano, correggimi se sbaglio, si dice: tutto scecco!”
“Esatto!”
Stavamo divagando. San Calò forse non era così sicuro di dirmi quello che avrebbe voluto. Poi…
“Voglio sfogarmi”.
“Sono qua. Tu ascolti tutti e nessuno ascolta te. Con me puoi, sono tutto orecchi e tutto panza. E poi ormai che ci siamo parla…”
“Ho deciso: dopo tutti questi anni in Italia, al Sud, nel Meridione, in Sicilia, ad Agrigento, è giunta l’ora di ritornare da dove sono venuto”.
“Ma che dici? Perché? Spiega…”
“Lassami stari…”
San Calò a questo punto non parla più. Si lascia avvolgere dal suo mantello di silenzio e guarda lontano, al di là del mare, da dove un giorno è partito per venire in questa terra, dall’altra parte del suo mondo, a fare del bene e poi a essere ricambiato con straordinaria devozione.
“Qui ti amiamo tutti!”
“Non è questo. Sono travolto dal vostro affetto. È che…”
“Parla! Parla!”
“Vado via”.
“Ma c’è qualcosa o qualcuno che ti ha dato fastidio?”
“Lassami stari”
“Parla, parla!”
“Mi sento inutile. Sarà la vecchiaia. Non riesco più a incidere come prima. Si tendono meno mani a chi ha bisogno e si è smarrito il senso della comunità reale. È diventato più facile lanciare un sacchetto di immondizia che un pezzo di pane. Tutti a mettere grandi cuori solo sui social. Che me ne faccio di un cuore su Facebook?”
“Ti potresti, intanto, aprire un tuo profilo personale contro i falsi profili. Avresti folle di amici e milioni di like a ogni post”.
“Non fa per me. Sono di un altro mondo. Amo guardare negli occhi ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, e raccogliere le loro lacrime”.
“E quindi?”
“Ritorno nella terra, violentata e poi dimenticata, che è stata madre di altre terre. Ha più bisogno di me, di un nuovo miracolo africano”.
“Ma la processione di luglio la farai?”
“No. Mi faccio le valigie e parto subito”.
“Ma se non hai nulla! Che ci devi mettere nella valigia?”
“Lassami stari”.
Mai visto un San Calò così giù di morale. Sarà il periodo storico, il cambio d’umore della gente, nero, nerissimo e non per la pelle o per il sole che quest’estate è sempre coperto di nuvole e di pioggia. Chissà se farà come mi ha detto!? Ho rispetto per la sua scelta, ma sono fiducioso che alla fine ritornerà sui suoi passi e uscirà tra il suo popolo come ha sempre fatto.
San Calò non ha mai tradito, perché San Calò è San Calò così come San Remo è San Remo e forse anche di più.
Lui non parla più con umane parole, ed è sparito dai miei occhi. Ma il suo silenzio canta. E canterà dentro di me, dentro di noi anche quest’anno.
“Ebbiva San Calò!”
Raimondo Moncada
Lascia un commento