L’incubo dei siciliani annegati in Libia

“Affondato un barcone diretto in Libia. I morti non si contano: sono tutti a galleggiare sulla superficie dell’acqua, ancora in attesa dei soccorsi. Tra i cadaveri galleggianti molti sono i bambini e le donne incinte. Tutti emigrati siciliani”.
Un incubo, solo un incubo a occhi aperti, un pensiero intrusivo, traumatico, di quelli che si producono da soli e che hai difficoltà a cacciare dalla mente, mi penetra d’improvviso la protezione ossea del cervello: “Morti, tanti morti, tra i tuoi conterranei, tra i tuoi connazionali, mentre cercavano, come tanti altri, una via di fuga verso un lido di speranza”. 

Sarà la voce della coscienza? 
Uomini, donne, anziani, bambini, famiglie intere. Come ai primi del Novecento quando partirono anche miei familiari per la lontanissima America. Come durante la guerra quando partì tutta la famiglia di mio nonno Raimondo con mio padre. Come nel dopoguerra quando si cercavano destinazioni sicure per poter vivere: nord Italia, Germania… Come negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta… quando ho visto partire zii, fratelli, amici… e quando io stesso ho conosciuto brevi periodi di emigrazione.
Come adesso.
Perché l’emigrazione dalle terre più povere verso terre immaginate più fortunate non si è mai arrestata. E oggi assistiamo a un doppio fenomeno: giovani che lasciano la Sicilia, il Sud d’Italia, per cercare lavoro altrove; e interi gruppi di famiglie che lasciano altre Sicilie per sbarcare nella nostra terra e poi decidere che fare. La differenza è nel mezzo di trasporto: oggi i nostri connazionali, con i soldi rimasti nel salvadanaio, prendono un aereo, un treno, un autobus, un passaggio in auto, mezzi sicuri, e raggiungono luoghi dove c’è già qualcuno: un amico, un conoscente, una comunità. Mentre chi viene da altre Sicilie, dopo varie peripezie e violenze, e aver pagato con risparmi di una vita mercanti di corpi senza scrupoli, raggiunge la nostra terra su barconi i cui legni sono incollati uno con l’altro con la saliva. 
Ma le due migrazioni, in dibattiti schizofrenici, non vengono messe sullo stesso livello. Si guarda più alla gente che viene che ai connazionali che vanno via e lasciano il vuoto con paesi che si spopolano e quartieri che cambiano colore. Si dimentica che anche noi abbiamo avuto le nostre tragedie e non negli abissi del mare, ma dentro l’inferno delle miniere come a Marcinelle in Belgio.
Cogli certi sentimenti da quel vespaio sempre più avvelenato di Facebook. 
“Perché noi siamo invasi; perché a noi rubano il poco lavoro che c’è e che da quando ci sono loro a noi lo pagano miserie e a nero; perché con i pochi soldi che ci sono lo Stato invece di darli a noi i soldi, che non abbiamo di che mangiare, li dà a loro; perché a noi quando andiamo fuori, all’estero, da veri stranieri, non abbiamo nulla, non ci regalano niente. E poi si è guardato in giro? Li ha visti gironzolare per le strade, pantaloncini e scarpette di ginnastica, attorno ai centri di accoglienza, con cellulari e cuffiette e internet gratis che paghiamo noi contribuenti, noi che paghiamo le tasse mentre loro mangiano, passeggiano e ascoltano musica a sbafo?”.
Altra differenza. Fino a qualche anno fa era un coro di indignazione, fino a qualche anno era una gara di solidarietà, fino a qualche ano fa una strage a mare a pochi chilometri dalla Sicilia provocava estesi sconvolgimenti emotivi: si fermava il mondo e il cuore di un intera collettività batteva all’unisono. Adesso sembra prevalere una rabbia che si tramuta in indifferenza, abbassiamo la testa e sfoghiamo su Facebook le nostre considerazioni. 
“Peggio per loro, se la sono cercata, non è che possiamo accoglierli solo noi? E quanto ci deve venire a costare? Non è che possiamo risolvere i problemi di un intero continente africano che è per dieci, cento, mille volte la nazione italiana? E l’Unione Europea che fa? Il mondo che fa? Tutti che li rifiutano come se il problema dei morti, delle loro miserie, delle loro guerre, fosse nostro. Ci hanno lasciati soli ed è facile dire che siamo insensibili”.
E via alla corsa a giustificare da una parte un mancato soccorso e dall’altra a condannare l’atteggiamento di totale chiusura. Più che corsa una guerra di parole. 
“Ripeto, perché forse non hai neuroni per intendere: non possiamo ospitarli tutti e solo noi”.
“Ma esiste ancora il sentimento di pietà umana?”
“Rifletti: non ti sembra strano che siano morti proprio adesso?”.
“Ma che stai dicendo: sei matto?”
“E gli altri che fanno?”
“E tu?”
“C’è da decenni ormai un’industria della disperazione. Sradicare le persone dalle loro terre è diventato un business che frutta bene. Ora basta!”.
“Ma non provi niente di fronte alle foto dei bambini morti annegati?”
“Sapevano a cosa andavano incontro”.
“E li lasciamo morire così?”
“Troppo facile accusare e indignarsi su Facebook mentre ti guardi il mondiale di calcio. Perché non te li porti tu a casa tua? E poi sei proprio così sicuro che quelle immagini siano vere e che, al contrario, non si tratti di una messa in scena di chi si arricchisce e che i morti non siano invece vivi?”
Valanghe di parole, reazioni su reazioni a ogni commento, a ogni presa di posizione, a ogni foto, anche all’articolo che riporta l’allarme degli esperti per i conti dell’Inps, l’istituto che paga le pensioni agli attuali pensionati e che dovrebbe pagare la pensione ai fortunati che forse ci arriveranno ma non si sa a quale età: 
“Il sistema, ora come ora, lo reggono i nuovi immigrati perché gli italiani non fanno più figli. Senza più immigrati collassa tutto e non si potranno più pagare pensioni a nessuno, né quelle d’oro né quelle di latta”. 
C’è pure questo fardello delle pensioni ad appesantire l’epocale questione immigrazione, ma adesso non ce ne rendiamo conto. Per adesso, fino a quando le pensioni si pagano, si tira a campare. Dobbiamo solo sperare che gli italiani si mettano subito, già da oggi, a fare figli e che i figli non emigrino così come fanno quelli già messi al mondo. E non è questione di non sapere come si fanno. 
Un altro pensiero intrusivo mi attraversa incontrastato il cranio nel chiudere, così come è stata aperta, questa sconnessa riflessione: 
“E se invece di andare al nord, i nostri figli e noi stessi fossimo costretti fra non molto ad andare al sud, in un’Africa miracolosamente divenuta una Eldorado grazie all’arrivo del venerato santo di Giurgenti? 
“Non impietosisci nessuno”.
“Ebbiva San Calò!”
Raimondo Moncada


La foto è tratta da internet, dal sito Pontile News  

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