San Calò, uno di famiglia


San Calogero lo sento come un fratello, come un amico, come uno di famiglia. È parte dell’essere agrigentino, di chi crede nel senso ortodosso del termine e anche di chi non è propriamente inteso come “religioso” nel senso di praticante la religione in tutti i suoi riti e sacramenti con naturale e quotidiana continuità (per inciso: ho conosciuto religiosi non praticanti e praticanti non religiosi).
La figura di San Calò è sacra, per tutti. Non a caso ogni anno la sua vara viene portata in spalla da numerosissimi devoti in condizioni disumane. E non a caso viene sempre circondata da folle oceaniche. C’è un popolo, omogeneo e variopinto, non costretto da nessuno a riunirsi e a gridare in continuazione “Evviva San Calò!”. Perché tutto a San Calò è spontaneo. Tutto viene dal cuore. Tutto viene da un infinito profondo. Tutto si perpetua di generazione in generazione. Tutto si fa per fede, perché si crede nel Santo e nel suo potere miracoloso. Perché San Calò non tradisce. I miracoli li fa per davvero a cominciare dalla fede per il Santo mostrata da chi nella vita di tutti i giorni vedi bollato come ateo o bestemmiatore e che poi magari ti porta nel portafogli o nel parabrezza della propria lapa un santino, a cui rivolgersi in particolari momenti per un umano conforto.

San Calò è sempre al tuo fianco e tutti gli portano il dovuto rispetto e la meritata devozione, con l’immancabile presenza nelle processioni di luglio; con il viaggio ‘mpiduni per chilometri di rovente asfalto; con l’assalto alla statua della vara per baciarlo e abbracciarlo e asciugarlo di estivo sudore; con il lancio di chili e chili di odoroso e costoso pane al suo passaggio per le vie della città sotto casa di tutti. E che bello vedere mischiarsi nella folla bianco e nero, giallo e rosso, ricco e povero, il noto attore della tv e il meno noto attore del quartiere: tutti uguali ai piedi del Santo.
Manco da Agrigento da tempo. O meglio, non frequento la mia natia città con la cadenza della mia infanzia e adolescenza. E la lontananza ti porta a vivere con più intensità quegli avvenimenti che da piccolo, da ragazzo, erano degli appuntamenti immancabili perché vissuti dai tuoi nonni, vissuti da tuo padre, vissuti da tua madre (e lo sentivo già dentro il pancione con la tammuriniata che suonava all’unisono col battito del cuore materno). Ricordo poi da piccolino l’arrivo trionfale della vara in Via Duomo, il mio primo quartiere, il passaggio davanti la Cattedrale, la sosta in piazza Don Minzoni: che spettacolo sulle strade, sui balconi, sui tetti, sulle scalinate! E io a correre tra mille gambe a inseguire e raccogliere panini con finocchietto e giuggiulena.

Quello che succede nelle prime due domeniche di luglio non può essere etichettato come manifestazione folk, ma è pura fede: la preparazione, le preghiere, l’attesa, la scampanellata, la tammuriniata, l’inno della banda musicale, la forza dei portatori, la speranza di chi chiede la grazia, la testimonianza di chi l’ha ottenuta. È un rito che si ripete, ogni anno. E ogni anno mi manca, puntualmente. Anche se non è la stessa cosa, proprio no!, vivo la festa di riflesso attraverso le mille e mille foto che appaiono su Facebook, i video e ora le dirette sui social di chi vive la festa per sé e per gli altri: un moderno altruismo grazie ai potentissimi smartphone. Una condivisione della fede e del fervore religioso che raggiunge ogni angolo del mondo, quei posti dove dai primi anni del secolo scorso gli agrigentini sono emigrati, ma non del tutto allontanati dalle proprie origini. Rimangono sempre legati con un resistente cordone ombelicale , sia alla propria madre terra sia al migrante nero, amico, fratello, di nome San Calò.

Raimondo Moncada

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