Si sono conosciuti durante la guerra, la seconda guerra mondiale. Ricordo il treno, i suoi esercizi per allenare la voce…
Me ne parlava mio padre. Ero piccolo. Me ne parlava così spesso di Gianrico Tedeschi, che il suo ricordo mi è rimasto impresso come l’inchiostro nero su un indumento bianco, immacolato. Me ne parlava ogni volta che lo vedeva in tv recitare in un film, in una commedia, in una pubblicità o in qualche altra occasione. Andava fiero di quella conoscenza. E io guardavo Gianrico Tedeschi in tv come se fosse un amico mio o uno zio, uno di famiglia insomma
Non ricordo altro. Ero troppo bambino. E mio padre manca da 23 anni per approfondire, per chiedere quello che vorrei chiedere.
Ci sono però le fonti storiche che, in qualche modo, ci aiutano, per darci quelle informazioni mancanti, leganti. Gianrico Tedeschi – vengo a sapere da grande – è stato sottotenente dell’esercito italiano in Grecia, e dopo l’8 settembre, rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, è finito in un lager nazista in Germania dove si è messo a recitare con i compagni di prigionia. Mio padre, invece, mesi dopo l’8 settembre si è ritrovato dalla Sicilia in Umbria dove, a sedici anni, ha partecipato alla lotta di Resistenza al nazifascismo nella brigata partigiana Leoni rientrando poi a casa, dai genitori, mutilato.
Ecco il contesto, gli animi, le scelte di due persone che la vita separerà.
Nella mia memoria tiro fuori un ricordo personale di Gianrico Tedeschi. È l’unica volta che lo incontro di presenza.
Siamo negli anni Novanta e provo a fare, anche se non ho il carattere, il giornalista d’assalto. Vengo a sapere di una commedia con Gianrico Tedeschi al Teatro Pirandello di Agrigento. Non me lo posso perdere. Un’occasione unica, irripetibile. Vado con una telecamera per un’intervista televisiva. Lo trovo da solo sul palcoscenico. Si starà concentrando. Starà prendendo le misure dello spazio dentro il quale dovrà far vivere il suo personaggio.
Entro. Capisco dalla sua espressione che sto mettendo piede in uno spazio intimo, sacro, inviolabile. Mi permetto di violarlo, a faccia tosta, armato di microfono per due battute sullo spettacolo e sulla sua straordinaria vita da attore. Se potesse – è quello che allora percepisco – Gianrico Tedeschi mi butterebbe giù dal palcoscenico con tutto il microfono, con tutta la telecamera ed io a far finta di niente, a far finta di non sentire alcun dolore e di essere onorato di quel calcione da maestro.
Gianrico Tedeschi, attore già avanti con l’età, ha i secondi contati ed è tutto concentrato sulla parte che andrà a recitare (quando mi è capitato di salire su un palcoscenico per una commedia mi sono sempre isolato, allontanandomi da tutto e da tutti).
Finita l’intervista, rinfoderato il microfono, gli dico: “Sono il figlio di Gildo Moncada. Mio padre mi ha parlato spesso di lei. Mi ha detto che vi siete conosciuti…”
Mi conferma tutto, ma poi debbo uscire. Il mio tempo è scaduto. Anzi è stato troppo educato.
Di quella memoria mi è rimasta l’amicizia con Gianrico Tedeschi e non per quell’unico incontro che ho avuto con lui ad Agrigento con quel gran calcio rimasto solo nelle intenzioni, ma perché sono cresciuto con lui nei ripetuti racconti di mio padre.
Ora la triste notizia letta su tutti i principali quotidiani nazionali. A cento anni da poco compiuti, quasi tutti vissuti a recitare, ci lascia uno straordinario artista.
Addio, grande maestro. Scrivo ancora di lei e mi riappare, sul palcoscenico sempre vivo della mia memoria, mio padre. Adesso siete tornati assieme, di nuovo sullo stesso treno, lei con i suoi esercizi per la voce, lui con quelli per allenare la mano e gli occhi per il prossimo quadro.
Avete tutto il tempo per raccontarvi nel dettaglio le vostre storie di vita senza più la fretta di recuperare gli anni della guerra. Un giorno le racconterete anche a me. Ho già pronte un’infinità di domande, per entrambi, che mi serviranno per allenare la mia scrittura e per completare un libro che ho iniziato a scrivere anni fa. Ma c’è tempo. Per adesso sto bene dove sono.
Raimondo Moncada
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