I ricordi di San Calò


La mia città natia, Agrigento, oggi in preghiera per San Calò, in Piazza Stazione, con il simulacro statico e non più libero camminante per le norme anti Covid. 
Quanti ricordi! 
Il primo è il pane consacrato che arrivava al santo durante la processione con una pioggia dai balconi e io minuscolo bambino che mi intrufolavo pericolosamente tra i mille piedi dei portatori della vara a raccoglierlo e a portarlo a casa, in vicolo Seminario, come la conclusione di una battuta di caccia a ricevere i complimenti di mamma e papà. 
E poi i tanti piedi scalzi sul bollente asfalto di familiari, di amici, di vicini, di conoscenti, di gente sconosciuta, per chiedere, implorare una grazia al santo che, se hai pazienza e fede, arriva. 
E come non parlare del mio tamburo, del mio urlo “Ebbiva San Calò!” per annunciare l’ingresso dei miei amici col l’energico ballo folk a lui dedicato? Ricordo la mia prima volta nelle vesti di tammurinaru in Germania, tra gli anni Ottanta e Novanta, davanti a grati emigrati siciliani e a accoglienti amici tedeschi (che non capivano niente di siciliano, ma che capivano bene cosa c’era dentro quel canto e dentro quel ballo di fede) quando mi sono lanciato in un monologo improvvisato meravigliando tutti, pure me stesso, timido timido su un palcoscenico tanto allegro di birra. 

Raimondo Moncada

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