Una figlia

In ospedale, per la vita. Una notte di attesa, di ansia, di sofferenza, di occhi aperti che non si vogliono chiudere sotto la violenza di un vortice di pensieri: “Andrà tutto bene?”

E tu che da Raffadali, dove hai cominciato a vivere da sposino in una casetta tutta tua in via Gattarello, raggiungi in macchina tra strade deserte il vecchio ospedale di Agrigento, il San Giovanni di Dio, lo stesso luogo raggiunto allo stesso modo tre anni prima per la morte di papà Gildo. 

Mi sistemo a pochi metri dall’ingresso laterale. Accanto a me c’è mio suocero. Non riusciva a dormire neanche lui e mi ha accompagnato. 

Lucia da ore urla dal dolore. È un dolore diverso da quello nostro, più reale, più fisico. 

Noi uomini siamo bloccati, impotenti, non sappiamo cosa fare. Vorremmo quasi intervenire e fare tutto da noi. Ma non siamo medici. Non abbiamo studiato per esercitare questa professione. 

Facebook non esiste ancora per scrivere almeno come si fa, perché su Facebook non c’è bisogno della laurea. 

Continuo a soffrire, ad agitarmi. Chissà Lucia come starà. Chissà se sarà tutto finito. Chissà se è andato tutto bene. I pensieri si affollano. E sto male, non pensando che c’è chi sta più male di me e urla. La vita è anche dolore, da sopportare, in attesa che subentri la gioia. Scendo dalla macchina. Faccio quattro passi. Penso di entrare, di forzare l’ingresso. Non si può. Mi guardo attorno. Il luogo mi fa ripiombare a tre anni prima, alle lacrime per mio padre, a un dolore mai provato prima: uno strappo alle carni. 

“Signor Moncada, venga, presto …” 

La notte ci riserva altri momenti, per fortuna diversi. Lucia viene condotta in un’altra stanza e circondata di personale sanitario. Il tempo si dilata e non solo il tempo. Ancora un ultimo sforzo tra battiti che ci uniscono. Mi decido all’ultimo istante utile di entrare, di forzare la porta e assistere all’evento. Mi faccio coraggio. Supero ogni paura, ogni resistenza. E se dovessi svenire?

Non ci sarà un altro momento come questo: lo debbo vivere. Ora mi sento più uomo. 

Eccola! Dopo una notte insonne, come quella di adesso.

All’alba del nuovo giorno, era proprio un 19 ottobre, vedo uscire dal grembo di Lucia una creatura. Un miracolo! Neanche ci credo. È Luna! È mia figlia! La mia primogenita. La prima nipote della famiglia Moncada e della famiglia Alessi. L’ho concepita io!  E non solo io. Io e Lucia o Lucia e io. Insomma, i figli si concepiscono in due, senza egoismi o primogeniture. Da soli non si va da nessuna parte. 

Luna, figlia di un amore nato sui legni di un palcoscenico, senza finzione. 

Ora padre. Come mio padre. 

Ricordo tutto: un raggio di sole fa breccia nella memoria ultimamente molto provata da altre sofferenze. La vita che crea la vita, che si autogenera, che si allunga, che si dilata nel tempo. Una vita che cambia tutto, che ti cambia, che ti regala flussi continui di felicità, che occupa ogni spazio, ogni cellula di te stesso. Una vita che va per la sua vita per essere vita che crea altra vita. 

Raimondo Moncada

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