La notte è lunga, lunghissima


28 ottobre 2021

La notte è lunga, lunghissima. Non so se sono più le ore di sonno o quelle di veglia. Mi agito sul letto, mi copro col lenzuolo che mi sta pure stretto. Guardo fuori dalla finestra e il cielo è nero. Non guardo l’orologio. Il tempo non ha più importanza come il sonno che ti dà la serenità e l’energia per affrontare la giornata che verrà. 

Un paio di volte mi alzo e vado in bagno. 

Sono solo con me stesso, con la parte ferita e con la parte che desidera guarire. Dovrei riposare. Ma non riposo e mi dibatto girandomi anche dalla parte del coinquilino che dorme. 

L’alba si mostra mentre sono girato sul lato della finestra all quale non abbiamo mai abbassato la serranda. Ci sono le cime degli alberi che si slanciano scure, accennando a un loro verde, e c’è un cielo pallido con venature di rosa. Ho l’istinto a fotografarlo per dire la mia prima alba in ospedale. Ma non vado oltre l’istinto. Mi godo la meraviglia e il silenzio che viene interrotto da una voce e da una mano che accende la luce. 

Non sembra un’infermiera. Mi chiama per nome, mi dà del tu, a volte del lei, è molto simpatica e cerca di mettermi a mio agio. 

“La vedo come un sarcofago. Decida lei se rimanere a letto”.

Mi alzo. Sono le 7,30. È già mattino e tra poco porteranno anche la colazione. Mi faccio un giro per il corridoio, ma sono uno zombie, avrei preferito stare a letto, stretto nel lenzuolo. Ma lo stanno rifacendo per me. 

“Raimondo Moncada?”

Passate le otto, arriva una nuova infermiera con un carrello. 

“Le farò un bel prelievo del sangue e un tampone rettale”.

Il mio corpo che avrebbe voluto rilassarsi, comincia a dare colpo al mio sensibilissimo stato emotivo. L’infermiera mi vede perplesso, quasi a prendere tempo. È quel “bel prelievo” che mi avrà scombussolato, ma anche quell’imprevisto tampone rettale. 

“Io preferisco il tampone rettale al tampone nasale” mi dice Maurizio notando la mia titubanza. 

“Se vuoi, attendo un po’. Magari vado da altri pazienti e poi ritorno. Nel frattempo fai Zen”.

Faccio così. Resto disteso e provo a respirare, a concentrare l’attenzione sul respiro nella pancia. Poi provo a concentrare l’attenzione dai piedi alla testa. Ma l’attenzione fugge e mi fa pensare quello che vuole, soprattutto alla puntura al braccio per il prelievo e all’inserimento di qualcosa nel retto dopo aver pensato di avere chiuso con le manomissioni. 

“Rieccomi qua! Com’è andata la meditazione zen?”

“Bene, ci voleva. Ora sono pronto”.

È molto socievole e mi mette a mio agio. Le racconto di me, della mia città. Anche lei mi racconta una cosa simile, con i genitori che da Roma dove è cresciuta decidono di rientrare a Caserta. 

“Posso sapere il tuo nome?”

“Mi chiamo Alessia”.

Sì procede in maniera indolore. L’ago è solo un fastidio. Niente di più. È quando ci metto il carico emotivo che mi fa male. Ma dipende anche da chi fa la puntura.

“Finito!”

“Grazie, non ho sentito niente.

“Finito col sangue. Ora mettiti sul fianco sinistro piega la gamba e abbassati il pigiama e le mutande”.

È il momento di una nuova manomissione nella parte già più volte manomessa. Vedo nelle mani di Alessia uno stecchino simile se non più piccolo del tampone anti a Covid.

“Ma a cosa serve?”

“Serve per capire se sei portatore di infezioni dentro l’ospedale”.

Mi giro, mi metto in posizione, attendo l’inserimento e il conseguente dolore, ma non succede niente di tutto questo. È tutto superficiale. 

È andata! Per oggi ho dato, penso, ma non sarà così. 

Mi rimetto a letto. Il cielo è azzurro, non c’è una nuvola e il sole si prepara a raggiungermi. Fuori il giardino ha un colore brillante. Mi piacerebbe scendere e farmi una passeggiata e parlarmi a voce alta. Ma non posso, ho il limite del corridoio. Oltre non posso andare, non mi è consentito. Potrei calarmi con le lenzuola dalla finestra… Ci penserò. Intanto approfitto del tempo per aprire un foglio digitale nello smartphone e scrivere.

(Un anno fa. Brani tratti dal mio diario appuntati dopo la mia prima notte in ospedale, al Bellaria di Bologna, in stato di ricovero per la chemioterapia, in preparazione dell’intervento chirurgico. Ricordi che non si cancellano, che ritornano).

Raimondo Moncada

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