“Che piacere rivederti, Raimondo!”
Un amico architetto esce dal Palazzo comunale di Sciacca mentre io entro con la fretta di timbrare il cartellino.
“Ti trovo bene”.
“Sì, rispetto a quattro settimane fa sono in un altro pianeta”.
“Hai fatto bene a rientrare a lavorare”.
“Sì, è stata una medicina che si è aggiunta ad altre medicine”.
“Dai che adesso stai bene…”
Non ho risposto con le parole, perché inghiottite da lacrime improvvise, inattese, incontrollate. L’amico architetto mi parlava, mi incoraggiava, con negli occhi la sorpresa e la felicità di rivedermi, ed io rispondevo con il volto rigato, quasi a nasconderlo per quell’emozione che mi ha colto in contropiede, che mi ha agitato il corpo, che mi ha ricordato le condizioni di un anno fa, in piena chemio, dopo il pronunciamento del verdetto, ad aspettare qualche minuto in sala d’attesa prima di entrare con la mascherina anti Covid nella mia stanza d’ospedale, al Bellaria di Bologna, per le mie flebo salvavita, tra pazienti giudici, avvocati, donne con berretti e turbanti in testa, madri con la testa rasata, chi in silenzio, chi a distrarsi con una compagna di sedia e ad accennare una conversazione approfittando di uno stimolo qualsiasi. Così, tanto per parlare, per rompere il silenzio, per passare il tempo. E per me tra le cose più insopportabili c’è stata la vista di madri e di bambini nei reparti oncologici. Perché? Mi sono sempre chiesto senza una risposta.
Credevo di essere riuscito a costruirmi una corazza, una pellaccia con uno spesso callo, ma così non è stato e il turbamento me lo sono trascinato per tutta la giornata di oggi.
Nel pomeriggio un altro incontro, con un’amica artista che non vedevo da un anno. Un incontro casuale, in un vicolo di Sciacca. Dopo l’abbraccio anche in questo caso sono scese mute lacrime come non mi capitava da tempo credendo di essere riuscito spavaldamente a domare la bestia emotiva.
Ho pianto pure in ufficio, consumando un pacchetto di fazzoletti di carta. Forse ho pianto per il costo dei fazzoletti da ricomprare per altri pianti. Chissà! O forse le lacrime sono scese per quel “Che piacere rivederti, Raimondo!”.
Quanto affetto! Non ci sono abituato. A 55 anni non ho un’armatura così spessa per difendermi da un fuoco amico quotidiano, continuo, intenso, caloroso. Sono circondato!
Debbo avere ancora più cura di me e del corpo più fragile, il corpo invisibile ancora provato e che continua a raccontare la sua odissea, un dolore che non ha parole, che non si capisce se non ci sei dentro.
Ecco perché in serata mi sono fatto non uno, non due ma ben tre regali che ho condiviso con chi ha condiviso con me tutto, e che sa tutto. Avevo bisogno di coccolarmi, di sentirmi vivo, di meritarmi ancora qualche premio, qualche umana e tenera attenzione.
Raimondo Moncada
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