Non sapevo ancora nulla. Ho aperto il cellulare durante il pranzo e mi sono ritrovato come prima notizia, ovunque, la morte di Sinisa Mihajlovic. E non ho fatto altro che piangere.
Non lo conoscevo di persona, lo conoscevo perché calciatore e allenatore della nostra Bologna. E lo conoscevo perché grande lottatore contro un male che non ti lascia mai sereno e a volte non ti lascia neanche scampo.
Si parlava spesso di Mihajlovic nell’ospedale dove ho fatto chemio e radioterapia, al Bellaria di Bologna. Lui era in cura al Sant’Orsola. Lo sentivo come un amico vicino di casa, con un sorriso che ti dava forza e sicurezza. Nei reparti, nei corridoi, nella mia stanza, con gli oncologi, gli infermieri, i compagni di viaggio, si parlava spesso della sua malattia che non guarda in faccia nessuno, della sua reazione da grande uomo, del suo attaccamento a Bologna e al Bologna, del suo senso di gratitudine, dell’abbraccio affettuoso di un’intera città che lo ha voluto cittadino onorario. Lui non se ne sarebbe andato, lui avrebbe combattuto da allenatore anche con l’un per cento delle sue energie.
Pensavo ce l’avesse fatta, pensavo fosse uscito dal tunnel, pensavo fosse stato restituito sano e salvo alla famiglia, alla moglie, ai figli, agli amici, al suo amatissimo calcio per il quale ha continuato a lavorare con la passione e la competenza di sempre anche nella sua stanza del Sant’Orsola, anche disabilitato dal male che alla fine, bastardo com’è, ha avuto la meglio.
Scrivo e piango.
Non ho altro da fare, cercando di mangiare un panino bagnato di lacrime incontenibili, in un bar di Piazza Scandaliato.
Addio, Sinisa. Un esempio per tutti. Non ti sei mai arreso e hai combattuto fino all’ultimo istante con tutte le tue forze, da straordinario sportivo, sempre combattente in campo, fuori campo, ovunque. Non hai perso. Hai vinto, perché hai giocato una partita impari, tu da solo contro un male che valeva undici.
Raimondo Moncada
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