Aspre mangiate di caracitula nelle campagne di Mosè del barone Agnello

Il ricordo è dolce, il sapore è aspro, più aspro del limone. Ad Agrigento è caracitula. A Sciacca scopro che la chiamano acitapumeta. A Giuliana mi dicono si chiami acitula. C’è sempre “cita” nel nome, che non è però la scimmia di Tarzan. 
Caracitula, acitapumena e acitula sono le denominazioni in siciliano di una pianta selvatica, dal verde stelo e con il fiore giallo come il limone. In questo periodo, inizi di gennaio, intere campagne sono coperte a tappeto del suo colore. Cresce ovunque, senza dare fastidio. In italiano – mi ha una volta detto il mio prof di Biologia Valenti durante una lezione di Biologia – la mia caracitula si chiama acetosella. A Bolzano non la puoi chiamare caracitula. Ti devi un po’ snaturare nell’espressione per farti comprendere. 
Quante mangiate da piccolo! E che meraviglia la lingua locale. La lingua madre è una – così come la caracitula e l’isola dove cresce -, le varianti sono tante. Ogni luogo ha la sua lingua del cuore, dei propri cari ricordi. Così nella mia Giurgenti, l’acetosella la chiamo caracitula come se mi rivolgessi a un caro affetto. A un’ora di macchina, sempre in provincia di Agrigento, il nome diventa acitapumeta. In altro territorio, in provincia di Palermo, a Giuliana, ancora più lontano, il nome si accorcia in acitula. In ogni nome c’è il richiamo al sapore, acido e aspro che, come un limone spremuto dentro la bocca, ti fa rabbrividire. Rabbrividisci, in senso buono, quando ne spezzi lo stelo con i denti e cominci a farlo danzare sulle papille gustative, con la mobile lingua che si dimena come tutto il resto del corpo, perché la caracitula è una pianta selvatica che si mangia. La trovi in abbondanza e tutti ne possono mangiare. 
Quando ero piccolo andavo alla sua ricerca. La mangiavo sempre, in gran quantità, vivendo anche in una periferia urbana, al Villaggio Mosè, al confine con l’aspra campagna di grano, di ulivi secolari, di vigneti, di mandorli, dove c’è la tenuta del barone Agnello di cui tanto parla nei suoi libri la scrittrice Simonetta Agnello Hornby. 
Non si lavava neanche, dico la caracitula. Non si disinfettava neanche. Non c’era bisogno. Si raccoglieva e si masticava dimenandosi pure nell’incipiente panza per il gusto fortemente acido. La raccoglievi e la mangiavi anche quando ci passavano greggi e mandrie, pecore, capre e cani di mannara. 
Non sono morto. Non mi sono ammalato. E, crescendo, non sono diventato più aspro di carattere. Quell’erba non mi ha mutato. È la sua visione salutare che mi muta l’anima. Mi ricorda una vita, un passato, la mia infanzia, la mia adolescenza, le corse indiavolate col carretto dalla discesa della collina Mosè, le giocate a pallone nel campetto di calcio ricavato in mezzo alla non ancora aggredita campagna. 
Da uomo cresciuto, oggi rimpiango l’epoca della caracitula, raccolta da bambino anche nella terra degli Agnello. Rimpiango quell’età andata, l’età dell’incoscienza, quando non c’erano i computer e i cellulari per passare il tempo. Quando avevi solo la strada, una palla sgonfia, delle figurine, dei tappi di bottiglia, un lignu sa’ con cui giocare e divertirti. E c’era tua nonna che, quando ti veniva a trovare, ti prendeva per mano e ti portava in quella campagna a raccogliere verdura. 
Lei cercava finocchietti selvatici, io caracitula. 
Raimondo Moncada

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