Siamo così interconnessi col mondo intero che, per empatia, non ci possiamo più permettere un sorriso. Meglio bandirlo per non fare figure meschine, così come bisognerebbe bandire ciò che lo suscita: una battuta, un post, un monologo, una foto, un video con contenuto comico, umoristico, ironico.
Oggi rischiano grosso. Rischiano di essere presi dalla comunità virtuale per cinici, per disumani, per cretini.
Dobbiamo, dunque, moderarci, metterci la museruola, darci pugni alla bocca quando ci viene lo stimolo di una battuta di spirito o di un sorriso. Non si può più ridere apertamente, anche se ridere e con spontaneità (rompendo la catena del condizionamento) fa bene a noi come singoli individui e alla comunità alla quale apparteniamo. La risata è sinonimo di benessere, di gioia. È pure segno umano di reazione a uno stato di infelicità. Chi è depresso ha difficoltà a ridere.
Perché tutti questi dubbi? Che succede?
L’avvento dei social, del tutti dentro il calderone, con tutti gli istinti e le emozioni del mondo, ha innescato un meccanismo che sa molto di gabbia.
Un tempo, non tanto lontano, c’era il momento del pianto e tanti altri momenti per non piangere e addirittura pure sorridere di cuore. Un momento per la sofferenza e uno per il naturale alleggerimento delle tensioni. Stati d’animo che gli umani condividono e si contagiano. Quando le comunità pre-social erano chiuse, gioia e dolore avevano modalità e tempi legati al grado di conoscenza e all’appartenenza a una famiglia, a un’amicizia, a un vicinato, a un quartiere, a una città. Quando c’era un dolore per umana solidarietà ci fermavamo, ci stringevamo attorno a chi soffriva. Piangevi assieme agli altri. Non ti veniva neanche voglia di una manifestazione contraria se non per tirare su il morale. Ma nelle comunità pre-social, chiuse, limitate, succedeva di tanto in tanto.
Ora con i social, strumenti che ti mettono in contatto con tutti in tempo reale, nei cinque continenti, non è più così. La comunità di appartenenza non è più chiusa, ma aperta, troppo aperta. Quello che succede in Inghilterra, in America, in Australia ci tocca da vicino, perché certi fatti che accadono a migliaia di chilometri di distanza te li avvicina la tecnologia virtuale. Ce li hai davanti agli occhi, continuamente. E così se succede qualcosa a Manchester, a New York, a Parigi, a Mosca, è come se succedesse nel tuo condominio. Se ne parla così tanto, con foto, video, commenti, che per empatia non ti viene più la voglia di vivere la tua vita secondo la sua geografica direzione. Vieni sconvolto e travolto. E il tuo sconvolgimento cresce al crescere dello sconvolgimento generale che ora si trasmette con vibrazioni e sussulti via rete.
Lo stesso sentimento non si attiva quando tragedie accadono (o immaginiamo accadano) in zone che non hanno la stessa copertura mediatica. Succede così che ci sia tanta costernazione per una foto di un bambino morto sulla spiaggia. Ma non si registri la stessa costernazione per centinaia di bambini morti altrove ma di cui nessuno parla. C’è la pietà e la rabbia per la storia di un barbone morto di fame a Palermo e non c’è la stessa reazione per un poveraccio che vive di stenti accanto a casa nostra. Si ha la stessa reazione per un evento falso spacciato per vero.
Ogni giorno succede nel mondo qualcosa a cui si dà grande risalto, la cui risonanza viene esponenzialmente amplificata dai social dando origine a virali condivisioni commentate e a discussioni arrabbiate. E siccome ogni giorno ci sono lutti ed al lutto si dà la precedenza e il maggiore spazio, perché è quello che attira la maggiore attenzione, l’onda emotiva che si solleva ti spinge all’inibizione di sentimenti contrastanti e alla sintonizzazione del tuo umore e del tuo modo di fare con l’emozione universale. Se un giorno ti svegli ignaro di un triste anniversario (che puoi anche vivere in commosso ma non ammesso silenzio), di una spaventosa tragedia avvenuta all’altro capo del mondo, e scrivi sui social qualcosa non in linea con le pubblicazioni correnti, sei preso di sicuro per un indifferente e trattato come il peggiore appartenente all’umanità. E se ridi o fai sorridere dopo una tua giornata magari pesante o dopo una sofferenza personale atroce (che per scelta non condividi e non metti nella piazza), fai la figura della bestia perché inopportuno e fuori contesto. E sei preso per un emerito imbecille (per non dire altro) da raffiche di commenti di utenti che sui social non riescono a frenarsi oltrepassando i limiti della violenza verbale in uno spazio che porto franco non è.
Qualcuno ti dirà: Fregatene! Lasciali sbattere. Continua a essere quello che sei.
Io penso sia una cosa giusta. Ma bisogna in qualche modo tenere presente questa nuova realtà, tutta virtuale, dove trovi anche chi si costerna pubblicamente, graffiando tutto e tutti, per poi nella vita fisica essere tutto il contrario di quello che ha mostrato d’essere. C’è anche il fenomeno dei “Je suis” che per alcuni eventi si è propagato viralmente e per altri no. E c’è anche la questione dell’abitudine alle notizie di tragedie sempre uguali e ripetitive (vedi le stragi terroristiche, le stragi a mare, le stragi in Siria, le stragi in Africa…). Ma questo sicuramente sarà oggetto di approfonditi studi sociologici e corsi universitari. Le mie considerazioni, invece, frutto di personali impressioni e di un vissuto social, potrebbero essere oggetto di sedute psichiatriche (è una battuta?).
Raimondo Moncada
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