Giorgia dà pugni al vetro della macchina. Prende pure a pedate il sedile della mamma. Ce l’ha con Agnese. Prima di partire per Sciacca le aveva promesso che saremmo andati a Raffadali a ordinare la torta di compleanno, con la pasta di zucchero e il disegno delle Winx.
Grida. Piange. La torta la vuole come dice lei.
Giriamo a Sciacca per pasticcerie, ma non ne troviamo una di suo gradimento. Battiamo ogni strada, ogni vicolo, ogni buco. Mi aiuto col navigatore satellitare. Per non sentirla, accendo la radio. Quando Giorgia alza il volume del pianto, faccio altrettanto con il volume della radio. Danno notizia dell’arrivo a Porto Empedocle delle prime salme di immigrati morti durante una traversata in mare. Un barcone si è incendiato a un chilometro da Lampedusa. Quasi tutti sono annegati, inghiottiti dalle onde, incastrati tra i rottami.
Giorgia continua a dare pugni e pedate alla macchina. Le dico di smettere perché non riesco a sentire la radio. I sommozzatori recuperano una donna e il suo bambino. Sono legati col cordone ombelicale, sospesi in acqua. La donna ha partorito durante l’annegamento. Le motovedette della Guardia Costiera squarciano la notte con grossi fari. Spengono i motori. Sentono un pianto. Si lasciano guidare. C’è un bambino sulla pancia di un uomo, non si sa se padre, fratello, cugino. Lo tiene con un braccio. Due marinai si buttano in acqua con un salvagente. Uno afferra il bimbo. L’altro dà soccorso all’uomo che in quell’istante chiude gli occhi. Una volontaria di un’organizzazione umanitaria scoppia in lacrime. L’uomo non dà più segni di vita come tanti e tanti altri.
Nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa si sistemano le bare, una dietro l’altra, quelle che si riescono a trovare. Riportano un numero, lo stesso numero con cui vengono contrassegnati i corpi. A battezzare i morti con una cifra è un poliziotto scrittore che con un numero ha chiamato un libro scritto nell’isola, un anno prima, dopo aver vissuto un’analoga tragedia.
Giorgia diventa aggressiva. Potrebbe anche mordere, come una volta mi ha morso alla caviglia un minuscolo cane dopo avere abbaiato, inascoltato, per una buona mezz’ora. Non riusciamo a calmarla. La deve vincere lei, come sempre. È figlia unica e unica nipote. Mi sta distruggendo la macchina e i timpani. Si prende la libertà di chiamare al cellulare nonno Enzo per dirgli di prenotare la torta a Raffadali. Glielo chiede nonostante la mia contrarietà. Le tolgo il telefonino, apro il finestrino e lo faccio volare. Litigo con Agnese. Mi dice di calmarmi, mi dice che non mi posso far sopraffare da una bambina e perdere così la pazienza. Il cazziatone mi fa accelerare ancora di più.
È da appena due giorni che siamo a Sciacca. Abbiamo preso un appartamentino in affitto al Quartiere dei Marinai. Una settimana, giusto il tempo per fare le cure termali e godermi un meritato periodo di riposo, dopo lo stress accumulato in undici mesi ininterrotti di ufficio, sommerso dalle pratiche, stordito dai rimproveri del capo, azzerato dal monitor del computer.
Altri dieci minuti a cercare, per strade sconosciute, una pasticceria gradita a Giorgia. C’è di nuovo la sigla di una nuova edizione straordinaria del radiogiornale. Alzo il volume. Si aggiornano le notizie sul naufragio. A Porto Empedocle, da una nave militare, sbarcano le prime salme degli immigrati morti sulla strada della speranza. Non hanno un nome. Non hanno una storia. Non hanno famiglia. La loro identità è stata uccisa assieme alla loro vita. Hanno solo un numero a cui è associata una foto che i poliziotti della scientifica hanno scattato ai cadaveri. C’è ora da trovargli posto per una degna sepoltura. Ci sono sindaci che mettono a disposizione loculi nei cimiteri comunali, quei pochi disponibili.
Sbarcano i morti e sbarcano i vivi, i sopravvissuti. Scendono sei bambini. Si guardano attorno con gli occhi di chi ha visto la morte. Si stringono alle accompagnatrici, giovani poliziotte conosciute a Lampedusa. Due bambini sono gemelli. Possono avere quattro anni. Se non si trovano i documenti, nessuno potrà certificare la loro data di nascita. Un neonato è in braccio a un’agente a cui cerca il seno con la bocca e le manine, agitandosi tutto. L’unica bambina del gruppo ha il mento spappolato. I soccorritori dicono ai giornalisti che è stato lo scoppio di una bomba. Gli danno sei anni. Gli ultimi due maschietti scesi dalla nave possono avere la stessa età di Giorgia. Si tengono per mano, ma non sembrano fratelli. Hanno la pelle di colore diverso.
Non parlano. Lo choc li ha ammutoliti. Vengono chiamati con i nomi di chi li ha salvati: Giovanni, Salvatore, Giuseppe, Carmelo, Gerlando. La bambina la chiamano Africa, per il ciondolo di cuoio che ha al collo. C’è stampata la forma stilizzata dell’immenso continente che sembra avere fretta di svuotarsi a Lampedusa. I genitori dei bambini potrebbero essere dentro le bare numerate o ancora sotto il mare. La Questura di Agrigento decide di trasferirli provvisoriamente in una comunità per minori. Fanno il nome di un centro d’accoglienza di Sciacca.
Giorgia continua a urlare per la torta con la pasta di zucchero. Il compleanno si avvicina. Lo festeggeremo al nostro rientro ad Agrigento. Le abbiamo prenotato telefonicamente una pizzeria. Ha invitato i compagni della quinta elementare. Pensa, a voce alta, ai regali che riceverà: vestiti, collane, giocattoli. Lo sa perché ha consegnato alla classe un elenco di desideri, ispirandosi alla mia lista nozze. Ci saremo pure noi, alla festa, io e Agnese, il papà e la mamma, ma seduti in un altro tavolo, distanti. Non ci vuole. Siamo troppo vecchi. Interverremo alla fine, portando la torta alla festeggiata e cantando “tanti auguri a te”. Il programma della serata lo ha deciso lei. Ci saremo, però, solo se riusciremo a trovare a Sciacca una pasticceria che prepara dolci con la pasta di zucchero e i disegni delle Winx, ma come dice lei, anche nel gusto.
In radio c’è una nuova diretta su Lampedusa. I morti accertati sono 323, i sopravvissuti sono 70. Tra i 323 morti, 103 sono giovani donne, 94 sono bambini.
C’è un collegamento da Malta dove una nave militare ha condotto alcuni naufraghi. Una donna grida continuamente “Africa! Africa!”. L’inviato del giornale radio della Rai spiega che Africa è il nome della figlia ed è riportato sopra un ciondolo di cuoio che i nonni le hanno regalato prima che prendesse la via del deserto. Una lacrima mi riga il volto: Africa è la bimba con la faccia sfregiata!
Giorgia continua a distruggere la macchina e a tirare i capelli alla mamma. Freno di colpo. Scendo. Dico ad Agnese di mettersi lei al volante e di andare a casa, al Quartiere dei Marinai.
– Ma che fai? Sali! Non fare pure tu il bambino.
– Mi faccio una passeggiata.
Agnese fa come le dico. Imbocco un vicolo e scendo al porto. È illuminato da una luna quasi piena. Si sentono solo i pescatori che puliscono le barche, messe in fila, una accanto all’altra. Mi faccio un giro per i moli. Il rumore del mare che sbatte a ondate sulla scogliera mi rimanda a Lampedusa.
Sto un’ora a girare. Poi rientro.
Ai piedi di una scalinata, trovo una istallazione artistica in ceramica e legno. Ha per titolo “Traversata”. È lì da un mese. C’è la data. Tante mani implorano aiuto mentre sono inghiottite dal mare, tra pezzi di barca e scarpe galleggianti.
Risalendo per le viuzze della Marina mi imbatto nella vetrina di un’antica pasticceria. Mi attira una insegna luminosa a intermittenza: “Torte per ogni evento”. Entro. Ne ordino due. Non sono di pasta di zucchero e non hanno il disegno delle Winx. Una torta è per Giorgia. L’altra è per i piccoli naufraghi. Troverò la strada per portargliela.
Raimondo Moncada
(Terzo al concorso Il tuo racconto per Malgrado tutto, edizione 2014)
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