L’incubo di San Calò

È quasi diventato bianco a forza di vasati, abbrazzuna e stricati di fazzuletta. Ora niente più.

“San Calò non si tocca”.

“Come non si tocca?”

“Proprio così. È per la sicurezza”.

“Ma sicurezza di chi?”

Oggi mi sono svegliato con un incubo. Ho sognato San Calò girare per le vie e le piazze di Agrigento a chiedere non pane per i poveri, non medicine per i malati, ma baci.

“Dunami un vasatuni”.

E la gente, la sua gente, a stargli lontano, come se fosse un appestato.

“Dunami un vasatuni, ti pregu”.

“Statinni arrassu, vattinni!”

“Ma comu? A mia? A San Caloriuzzu, doppu tuttu u beni chi ti fici? Dunami un vasuni…”

“No! Non più!”

“Ma comu non più? Mi facistivu aggiarniari a forza di vasatuna”.

“È accussì e basta!”

E tutti a tirargli tozza di pane a forma di piede e a cacciarlo. E San Calò a ridiventare nero ma questa volta dalla rabbia.

“Ragiuni avi me patri: fa beni e scordatillu”.

È difficile pensare alla cancellazione di una secolare tradizione vissuta da tutti gli agrigentini e da me in prima persona. Non assisto alla processione da tanto tempo. Mi sono rimasti però i ricordi, vivi, vivissimi. Da piccolino, mignon, dai tempi delle scuole elementari o forse anche dell’asilo, mi avventuravo tra i mille piedi della folla e poi tra i centopiedi dei portatori per raccogliere il pane benedetto. Era come un gioco. E arrivavo a casa col trofeo di una sporta piena di pane lanciato sulle teste dei fedeli da finestre e balconi con forza telamonica.

“Talè quantu nnì cugghivu!”

Allora abitavo con la mia famiglia in Vicolo Seminario, e via Duomo con piazza don Minzoni era il mio regno. Neonato, sarò stato pure afferrato per l’ascella da uno dei portatori sulla vara come milioni di altri bambini che poi ho visto, alcuni piangere, altri sorridere, altri con gli occhi sgranati a sorpresa:

“Ma che mi stanno facendo?”

Ho visto gente di tutte le età piangere abbracciata al santo, con peso corporale proibitivo e in postura anche acrobatica, pericolosissima, per supplicargli un miracolo o ringraziarlo per una grazia ricevuta.

Arrampicarsi dal bollente asfalto e conquistare la vetta del simulacro, toccare il santo, cingerlo con tutta la forza e non lasciare più la presa, è stato sempre parte della richiesta o della gratitudine del devoto.

Oggi niente di tutto questo. Il Covid e soprattutto le tragedie accadute in altri luoghi in presenza di folle difficili da controllare hanno suggerito l’introduzione di rigorose norme di sicurezza, non per la statua del santo ma per l’incolumità delle persone, per evitare che qualcuno si faccia male. Ci sono disposizioni e c’è chi ha la responsabilità di farle applicare e di applicarle. È una realtà che si deve accettare, per il bene di tutti.

Rimangono così solo i ricordi e gli incubi.

E rimane anche la fede, che non ha bisogno di aggrapparsi a una statua.

“Ma San Calò è San Calò. E chiamamu a ccù n’aiuta…”

“Ebbiva San Calò”.

Raimondo Moncada

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