Pani schittu

“Nni vo’ pani schittu?”
Una donna dall’apparente età di quarant’anni si avvicina a una pescheria e si mette in contatto con due uomini che capisco subito essere suoi parenti e poi so essere il padre e il marito. Ha i capelli neri, con qualche filo bianco e mangia, mangia, pezzi di pane che prende da un sacchetto di carta. Un altro sacchetto, ma di plastica, contiene dei panini, forse quattro, bene avvolti in una pellicola protettiva.

Mangia con gusto, solo pane, mentre tutto intorno è odore di pesce e per le api è un’autentica festa. In un primo momento hai paura di qualche puntura, ma poi capisci che non è te che vogliono. Loro, le api, mangiano a piccoli bocconi buon pesce di Sciacca, la signora solo pane senza nient’altro.

“Mi lu portu in Germania” dice compiaciuta del suo progetto e della sua lingua madre mentre padre e marito attendono la pulizia del loro pesce che intuisco molto abbondante. Chissà, penso, la signora avrà ordinato pure al vicino panificio sacchi di pane da mettere nel bagagliaio della macchina per poi portarlo tutto con sé in Germania e mangiarne e farne mangiare ad altri familiari, ad altri amici, ad altri emigrati siciliani che vivono e lavorano in quella terra dove anche io ho parenti dal secondo dopoguerra.

Mangia la signora, mangia, per riempirsi di Sicilia, e portarsene pure un pezzo da centellinare nei prossimi mesi fino alle prossime ferie.

Raimondo Moncada

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