“Mio figlio? Fino a quando lo posso tenere lo tengo”. Lo dice una mamma a un’altra mamma e pure nonna.
È una breve conversazione alla quale assisto da interessato spettatore in una bottega di frutta e verdura. Io attendo in silenzio il mio turno per due pere né troppo dure e né troppo mature.
L’una aggiorna l’altra sui pericoli dell’adolescenza di questi tempi. È quasi un monologo, uno sfogo:
“Non sono mai contenti di niente. Mio figlio proprio oggi ha fatto tredici anni, ma il corpo lo tradisce, ne dimostra molti di più. Ogni giorno è una lite sull’orario di rientro serale. Io non transigo: gli dico che deve rincasare alle 9. E lui si arrabbia. Mi dice: ‘Ma come alle nove? Le femmine rientrano tutte a mezzanotte’. E io a rispondere: ‘Non mi interessa. Tu devi rientrare alle nove!’ Poi mi chiede di allungare almeno di un po’: ‘Possiamo fare alle 9,30 almeno?’ E io gli concedo massimo quella mezz’oretta. Mi possono prendere per antica. Non mi interessa così come non mi interessa quello che fanno gli altri genitori. Ognuno si assume la propria responsabilità. Io fino a quando lo posso tenere lo tengo. Verrà il suo tempo”.
L’altra mamma-nonna la pensa come lei, facendole i complimenti per il figlio, per come è cresciuto. Io mi limito ad ascoltare, sibilando solo un “è un’età difficilissima” e nel frattempo individuando con gli occhi le mie pere né troppo acerbe né troppo molli. Il punto di maturazione è fondamentale, anticiparlo o superarlo significa rovinare il gusto della frutta.
Raimondo Moncada
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