Incontro ravvicinato col murmure Dante

Nel mezzo del cammin di mia vita, mi scontrai con una testa dura.

“Chi sei?” Mi chiese.
“Cu sì tu?” Gli risposi.
Alla fin della contesa ci presentammo.
   “Piacere, Dante. Ma mi puoi chiamare anche Alighieri, se vuoi”.
    “Piacere, Raimondo. Ma mi puoi chiamare anche Rai se ti affatichi la gola”.
All’inizio sembrò freddo come il marmo. Quando si sciolse ed entrò in confidenza, Alighieri mi parlò della sua vita, del suo pensier e delle sue opre. Io, senza peli sulla lingua, gli dissi del danno che ha cagionato con tutti quei canti della Divina Commedia che a scuola ti obbligano a tradurre, a spiegare parola per parola, e a imparare a memoria perfino le virgole e i punti e virgola. Una tortura.
Alighiero mi confessò, piangendo e ostentando fatica e sudore (riporto il virgolettato, sono parole sue perché lui ha sempre parlato così): “È duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.
Io, per confortarlo, cercai di farlo ragionare. Infatti gli spiegai: “È normale che i duri calli spuntano quando fai qualcosa che prima non hai mai fatto: calli ai piedi se cammini troppo, calli alle mani se ti gratti troppo la testa, calli pure ai neuroni se pensi a sproposito”.
Dante, con un ragionamento tutto filosofico, mi consigliò di “considerare la mia semenza”. Mi ripeté la solita litania, che i prof di italiano ti ripetono fino a farti stancare e che ti fanno sottolineare sulle antologie (c’è chi usa il bianchetto invece dell’evidenziatore: bastardi!): “Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.
Io mi permesi di rispondergli che nella mia Sicilia mangio spesso nocciolina e simenza e che a me mi piace. Dissi proprio così: “A me mi piace!”.  A questo punto, maestro Dante saltò in aria come una bomba. Mi ricordò Sara Simeoni nel suo alato salto da record mondiale, quando l’asticella per paura cominciò a tremare.
“A me mi, caro mio, non si puote dir. O dici a me, o dici a mi. L’italian è italian”. Questo mi disse Dante, consegnandomi brevi manu una pagella con zero nelle materie letterarie e sotto zero nella grammatica e nella sintassi. In condotta: inqualificabile. 

Io, per tutta risposta:  “Bello mio, bello Alighiero, a me mi io lo dico quanto mi pare e piace: A me mi! A me mi! A me mi! A me mi! Etc etc”
E lui, tappandosi le orecchie, a gridare: “Basta. Lo timpano m’esplode”.
E io arrabbiato: “Se non era per tua cagion, bello lustro di patria nostra, nell’italico stivale si sarebbe parlato il sicilian, la mia sacra e matre lingua. Perché io tutto sicilian nacqui e poi in italian m’annacquarono. E in sicilian si sarebbero scritte la tua Divina Commedia e financo i Promessi Sposi, gli Sposi Divorziati e gli Sposi Omosessual. Il nostro Alessadro…
“Alessandro chi?”
“Il Manzoni…”
“Me ne han parlato. Ho visto alcune sue statuette…”
“Alessandro non sarebbe stato costretto a venir nella tua Firenze a sciacquarsi la bocca nell’Arno”.
“Non mi parlar della mia amata Forenze. O quanto è duro calle…”.
“Di nuovo con la storia dei calli?”
“Con me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”.
Ed io, per oscura cagion e toccando i miei porta fortun, mi misi non so come a toscaneggiar dantenando.
“O Alighiero, che è quel ch’i’ odo?
 Il senso delle tue palore m’è duro. Duro, duro, duro. Hai forse perduto lo ben de l’intelletto?”
E il Dante proruppe a piaghe e a sospirar, a piagne e a piagne Arni di lacrime piagnucolevoli con la man destra che sbattea sulla sua ampiosa fronte facendo un gran tumulto. Alti guai 
risonavan per l’aere sanza stele e sanza tempo,
 per ch’io al cominciar ne lagrimai e cercai di consolallo togliendogli la mano dalla sbattuta fronte. Senza ma però riuscirci. 
Ed elli a me: “Lassame sta. E non dire ma però, che pe dli grammatici non se può di’”.
“Ma anche tu, o sommato Dante, scrivesti un ma però nello tuo Inferno. Come la mettiam?”
“Se lo scrivo io, bello mio, non è un error. Chiamasi licenza poetica”. 
Dopo fiumi e fiumi di pianti che l’Arno si ritirò con vergogna sulla natia fonte, il sempr’esule Alighiero inforcò gli occhiali, allungò i bulbi oculari e financo il naso aquilino e mi disse: “Tu sei lo mio maestro e ‘l mio autore, tu se’ colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore”.
Ed io: “Forse sbaglio di persona ci fu. Ma grazie, grazie assai, o sommo dei sommi che di sommatoria sommo fusti e per questo fuggesti, o lume pregno di virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno”.
E Dante: “Che?”
E io: “Ho con la divin tua lingua detto che anche tu sei semplicemente bravo”
Alighiero: “Hai tutto il mio ringrazio”.
E detto questo, si chiuse ancor di più dentro sé stesso, pietrificandosi, ma non nel cor, continuando a parlare in eterno all’alme dal suo murmure marmo.
Raimondo Moncada

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