Emilia Romagna, terra ferita che ha preso in carico le mie ferite

Cosa vuole un paziente? Non sentirsi un numero, una statistica, un’incognita, un guadagno, un pacco, un peso, una prescrizione, una prenotazione, un esperimento. Non sentirsi un turista in tour alla ricerca del medico giusto, uno in fila, uno dei tanti malati in sala d’attesa nel caos dell’incertezza perché uno specialista ti dice una cosa un altro specialista te ne dice un’altra.

Non vivere dentro un sistema sanitario che lo faccia disperare, che lo faccia scontrare con la difficoltà a trovare in tempi ragionevoli una struttura per un esame strumentale o per una visita.

Non provare rabbia e poi pena per medici e infermieri che non riescono ad assisterti per come meriti perché non in numero adeguato ad assicurare un servizio.

Il paziente non vuole sentirsi un pensiero per nessuno.

Il paziente vuole sentirsi preso in carico, ricevuto, curato, accarezzato, ascoltato, capito, in mani sicure, trattato come un essere umano fragilissimo, perché ferito nel corpo e nell’anima, trafitto come un tombolo, schiavo del percorso terapeutico, sensibile a ogni parola, a ogni tono di voce, a ogni sfumatura espressiva, a ogni minimo tentennamento, a ogni finta verità, a ogni finzione mascherata per competenza, a ogni carenza, a ogni inefficienza, a ogni attesa.

Il paziente vuole semplicemente trovare un medico, un centro, un ospedale, per affidarsi con fiducia, con speranza, senza pensieri inutili. Avere l’indicazione che qualcosa si può fare, che qualcosa si può tentare per guarire. Avere la sicurezza di trovare il massimo dell’assistenza sanitaria e umana, il massimo che la scienza e la tecnologia e l’umanità oggi possano offrire.

Il paziente cerca l’interruttore da spingere per cancellare il buio dopo che una diagnosi gli ha spento la luce.

Ho pensato a questo e ad altro, lontano dalla mia Sicilia, uscendo dal mio ultimo appuntamento di marzo al reparto di Oncologia dell’ospedale Bellaria di Bologna dopo giorni e giorni di esami e di visite in più reparti, in più ospedali pubblici, dove ti chiamano giorni prima a telefono per ricordarti l’appuntamento:

“Buongiorno, signor Moncada. Mi raccomando la puntualità, il digiuno e la preparazione antiallergica”.

Dico anche che ho pensato ad altro, perché a forza di frequentare lo stesso reparto per mesi, per oltre un anno e mezzo finisci con l’avere rapporti che non sono più quelli delle prime settimane quando vedevi un camice e già ti irrigidivi, già provavi dolore guadagnandoti pure l’appellativo di eroe coraggioso.

Ho affrontato l’ennesimo pit stop con l’ansia del risultato, con la paura dell’esito, e la serenità di ritrovare di fronte a me un’oncologa di cui tutti (e anche io) parlano bene, e la preoccupazione di essere l’ultimo dei pazienti da visitare di una lunga mattinata.

E ho pensato: magari sarà stanca, nervosa, troppo carica emotivamente dopo aver avuto a che fare con tanti pazienti entrati nel suo ambulatorio non per un graffio alla pelle, non per una visita di routine, non per …

“Raimondo Emme, ambulatorio 4!”

Eccoci! È il mio momento, dopo una settimana dura, di esami, di consulti, di decisioni, di rinvii ancora di qualche mese. È ora di pranzo, ma non fa niente. Lo stomaco neanche ci pensa.

“Buongiorno!”

Mi accoglie un sorriso, che si allunga al di là dei confini della mascherina (che in ospedale è ancora un obbligo). Un anno fa eravamo a contare i cicli di radioterapia dopo quelli di chemio e a prepararci all’intervento chirurgico all’ospedale Maggiore, dove ho altri cari amici.

Nell’ultimo incontro (e in attesa di quello imminente al quale penso con quotidiana maggiore intensità) si sono analizzati gli effetti del già fatto e in prospettiva di quello che c’è ancora da fare in un clima diverso, in un rapporto diverso, con un vissuto diverso. Si sono letti gli ultimi esami, si è segnato il prossimo appuntamento e si è avuto pure il tempo di parlare del processo di ripresa, del ritorno alla vita e delle nostre città, di Agrigento, della Valle dei Templi… Ho fatto vedere un video sulla città in cui vivo, su Sciacca e il suo carnevale e ho appreso che nella sua città c’è una festa tra fine aprile e i primi di maggio con sfilate di carri allegorici come saluto al ritorno della primavera. Abbiamo parlato della mia salute, dei venti chili e oltre persi e recuperati per il buon cibo siciliano, per le arancine, per i dolci che ancora gusto a occhi chiusi.

Tutto questo, appuntato pure nel mio smartphone, come tutto il percorso medico, mi è ritornato in giorni di grande dolore, per i lutti, per le devastazioni climatiche, che mi hanno lacerato l’animo. In Emilia Romagna ho pure familiari, ho amici, è la terra che mi ha accolto, che si è presa carico delle mie ferite, come un proprio figlio.

E così ho riportato il mio cuore a Bologna, perché – ne do amplificata testimonianza – ancora pulsa grazie ai suoi medici e infermieri (mi chiamano pure per nome: Raimondo!) del reparto di Oncologia dell’ospedale Bellaria e del reparto di Chirurgia dell’ospedale Maggiore, straordinari presidi della sanità pubblica.

Con un turbato stato d’animo, ed esprimendo la mia tristezza e vicinanza all’intera grande e generosa Emilia Romagna, vi raggiunga il mio grazie gigante per tutto quello che avete già fatto, per tutto quello che state facendo, per tutto quello che farete (perché continuerete a farlo) per farmi sentire un paziente speciale come tutti gli altri, un paziente ideale, da manuale, da trattato medico-scientifico, col suo estremo bisogno di comprensione, di umanità, di affetto, di cure, di competenza, di scienza medica, di speranza.

Raimondo Moncada

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