Non ce l’ha fatta. Il mio amico non ce l’ha fatta. Ha lottato fino alla fine, ma la guerra è stata impari, troppo impari.
L’ha scoperto mentre io ero a Bologna, già in terapia. E prima di scoprirlo ha pure ritirato un premio a nome mio, perché impossibilitato a presenziare. Poi ci siamo incontrati e confrontati. Ci facevamo forza, raccontandoci dei nostri percorsi obbligati. E lui era fiducioso.
“Forza! Forza! Ce la dobbiamo fare, ce la faremo”.
E io gli ho ripetuto lo stesso incoraggiamento due settimane fa, andandolo a trovare a casa. Una settimana dopo sono stato invece muto, non ho più trovato la forza delle parole che mi sono rimaste in bocca esplodendo d’improvviso poi, in lacrime.
“Non devi più venire” mi hanno detto.
Adesso la notizia, che annienta una famiglia, la moglie, i figli in un dolore che non ha e non può avere consolazione.
“È andato via”.
Ecco cosa fanno certe malattie, bastarde, fanno soffrire lungamente, ti illudono pure e poi ti rubano la vita.
“Ma tu non ci devi pensare” mi consigliano amici quando capita di parlarne.
E come fai quando si tratta di amici?
Buon viaggio. E grazie per tutto, Nino. Per la tua vicinanza, per la tua comprensione, per la tua amicizia, per il legame e anche per i babbaluci (ne cercavi di quelle buone, speciali, per farmele assaggiare in questi mesi).
Mi dispiace profondamente.
Troppa inumana sofferenza.
Siamo come foglie strappate, fuori stagione, prima del nostro tempo.
Inaccettabile.
Raimondo Moncada
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