Il piatto di babbaluci è rimasto solo un desiderio, tuo e mio.
Tuo desiderio perché mi dicevi: “Appena scendi da Bologna e ti riprendi, ti invito a casa per una nuova mangiata di babbaluci. Ma prima pensa a guarire”.
Mio desiderio perché attenderò invano i babbaluci di chiddi boni, speciali, scelti da te per fare piacere a me da far preparare a tua moglie Aurelia perché come le cucina lei le lumache nessuno. Non ti accontentavi di quelle senza gusto, che non sanno di niente.
Quando sono sceso da Bologna, in attesa dei successivi viaggi e controlli, cercavi, chiedevi in giro, ma non ne trovavi per farmi fare la mangiata di qualche anno fa quando ho divorato pure il tavolino che sapeva di sugo di babbaluci.
Poi ti sei ammalato e abbiamo cominciato a parlare anche d’altro e io forte della mia esperienza sono diventato una sorta di consigliere, di esperto in materia. Ed entrambi a sorreggerci, a farci coraggio. E il tuo ottimismo, la tua fiducia, mi sorprendevano pure, come lo scorso aprile quando mi hai invitato per il tuo compleanno, a Menfi, in riva al mare, con le nostre famiglie, in un luogo idilliaco, protetto, magnifico. Poi il cedimento, nelle ultime settimane, dopo una battaglia durissima che hai combattuto con forze inaudite e con una sofferenza disumana, inguardabile:
“Non ce l’ho fatta!”
Scusami se questa mattina non sono venuto al tuo ultimo saluto. E mi scuso con tutti i tuoi familiari, miei amici, tutti vicinissimi durante il mio percorso terapeutico emiliano ora sopraffatti dal dolore. Anche io sono stato sopraffatto dall’emozione e non ho trovato neanche forze residue per raggiungerti.
Grazie sempre, grazie ancora, Nino (prof. Antonino Buscemi).
Hai sofferto troppo. Troppo. E non dovrebbe essere consentito da nessuno, da chi sta in terra e da chi sta in cielo.
Raimondo Moncada
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