È come se ancora fossimo dentro quell’esplosione giunta all’istante nelle coscienze di ogni casa.
“Hanno ucciso Falcone” “Possibile?” “Non ci credo” “Eppure era l’obiettivo numero uno da tempo” “Che dispiacere” “Non doveva fare questa fine” “Ma l’hanno difeso adeguatamente per come meritava?”
Ogni 23 maggio ritorniamo in quella strada sventrata, come fosse oggi una strada di Gaza o dell’Ucraina con la differenza di bombe lanciate su una sola persona, rea di rappresentare una Sicilia onesta che non ha paura e lotta con quello che ha, con quello che è.
Ogni 23 maggio ci ritorna quel fumo che non si è diradato, ci ritornano nelle carni quelle lamiere piegate dal tritolo fatto esplodere a distanza chilometrica da mano esperta, esercitata, contro un uomo solo, la moglie, gli uomini della loro sicurezza.
Tutti lo sapevamo, era solo questione di tempo. La sua vita era segnata.
Quel fumo si rialza nelle nostre case, nelle nostre coscienze avvolgendo il volto sempre sorridente di Giovanni Falcone, di un siciliano che ha osato andare oltre ogni precedente limite umano, per la giustizia, per la sua toga, per la sua coscienza, per il suo amore per la terra natia, costretto disumanamente a vivere ogni giorno in un bunker e con il pensiero perenne di essere ucciso in qualsiasi spostamento di lancetta.
Cosa potevamo fare per impedirlo? Per impedirci di celebrare negli anni una morte annunciata?
Raimondo Moncada
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