La guerra è finita. Parlo della seconda guerra mondiale. Ma sembra non sia così, sembra una guerra infinita.
Ho quest’impressione, ho sempre avuto quest’impressione. E l’ho vissuta sempre male, perché la guerra fa male quando la vivi e quando la rivivi o te la fanno rivivere.
Ho vissuto la guerra vedendo il corpo di mio padre, perché mio padre quella guerra l’ha combattuta.
Lo hanno chiamato partigiano, è stato un partigiano nella Resistenza al nazifascismo.
Gli mancava una gamba, persa in guerra, gli mancava la pienezza dell’articolazione della mano destra a causa sempre della guerra, e ha portato dentro le schegge di quella dannata bomba di Sansepolcro che periodicamente faceva rimuovere quando lo infastidivano. E non erano le uniche ferite. Perché una guerra ti ferisce l’animo, per sempre, e ti porti dentro quelle ferite per sempre. E ai figli questo viene trasmesso perché col padre vivono, parlano. I figli ascoltano anche il non detto dei silenzi, dei turbamenti, degli orrori che vibrano continuamente sotto pelle, sotto traccia.
La guerra ti segna. Per sempre. Ti segna ancora di più, in profondità, se la subisci, se coinvolge la tua intera famiglia, i tuoi anziani genitori, le tue giovani sorelle, tuo fratello più grande con figli appena nati. E ti segna ancora di più per un’intera esistenza se ti chiama alla partecipazione attiva, e tu vai, trovi in qualche modo il coraggio, ti lanci nel buio perché non sai cosa accadrà.
Nessuno ti dà la paghetta settimanale. Nessuno ti assicura niente. Vai, capisci che c’è bisogno anche di te in quel momento, perché la tua terra è occupata da un violento popolo straniero alleato con la dittatura del tuo paese.
La guerra la fai, a sedici anni, e non per gioco. Ti aggreghi con altri volontari che scelgono l’azione, che significa altissimo rischio per la propria vita così male armati e senza alcuna preparazione, in alleanza con altre nazioni, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, che intervengono per estirpare un male quasi in metastasi e creare le condizioni per un mondo diverso, con libertà e democrazia che poi, dopo tanto sangue versato, sono stati incisi in Costituzione assieme ad altri valori che oggi ci sembrano ovvi. Oggi.
Questo è stato.
La guerra è finita quando mio padre era in ospedale per le ferite riportate nel luglio del 1944, lontanissimo dalla sua Sicilia, dalla sua Agrigento. Il suo primo 25 aprile lo ha celebrato così, in attesa di guarire, di riprendere a camminare, di mettersi quella protesi di legno che lo accompagnerà per tutti i 25 aprile che personalmente ha organizzato fino al luglio 1997, quando è andato via per sempre.
Dopo tanti anni dalla sua morte, spinto da una continua potente forza interiore, ho messo mano alla sua vita mutilata, alla sua memoria frammentata in tante foto, in qualche documento, una videocassetta di una rara intervista custodite nei suoi cassetti, per capire, per capirlo, perché i figli non capiscono i padri e quello che fanno perché pensano ad altro, figli di un’epoca di comodità e di richieste. E non gli ho dato mai peso, mai importanza. Non gli ho chiesto della sua adolescenza non a scuola, non al viale della Vittoria nella nostra Agrigento, o forse gli avrò chiesto da bambino, ma non ho tracce in memoria. Ricordo i 25 aprile che personalmente organizzava, anche tra tante difficoltà, ricordo quando era felice nei momenti in cui riprendeva a disegnare con il suo inchiostro di china (nei suoi primissimi grafici c’è con ossessione la parola PACE, PACE, PACE).
Ho così affrontato la scrittura di quello che diventerà il libro a lui dedicato, Il Partigiano bambino – la storia di Gildo Moncada, per conoscere io ancora meglio l’intera sua esistenza, dargli dignità, per trasmettere la sua memoria ai nipoti che non ha mai conosciuto come io non ho mai conosciuto mio nonno Raimondo morto poco dopo la fine della seconda guerra mondiale che lo ha ucciso.
E ringrazio ancora una volta Gaetano Alessi, di Ad Est, per avermi convinto a pubblicarlo prendendosene cura assieme ad altri ragazzi dell’Emilia Romagna.
In un passaggio mio padre, partigiano, mutilato, ferito, stanco, avanti con gli anni, ricordando i giorni del suo ricovero all’ospedale San Carlo di Roma dopo il 25 aprile ricorda: “E c’eravamo anche noi partigiani, trasferiti dall’Umbria e dalla Toscana. Non abbiamo dimenticato chi in guerra minava le fabbriche e fucilava i nostri giovani. Ma in questi reparti di ospedale c’è stata una riconciliazione umana e patriottica in nome della nuova Italia”.
Il 25 aprile per me è sempre stato mio padre. È l’unica data che ogni anno me lo ricorda intensamente. Sono rimasto un bambino.
“Il 25 aprile – diceva aprendo le celebrazioni ad Agrigento e dando la sua testimonianza col fazzoletto tricolore della sua Anpi al collo – deve essere giorno di festa e di tripudio. È il simbolo della libertà e della democrazia”.
E ognuno può fare e dire quello che vuole, liberamente e in pace.
Raimondo Moncada
(Nella foto mio padre a Milano, durante il periodo del convitto scuola della Rinascita, nei primi anni Cinquanta quando comincia a rifarsi una nuova vita: è quello che pennella la parola pace).
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