Mi hanno bussato alla porta.
“Chi è?”
“Io sono”.
“Io chi?”
“Io, non mi riconosci dalla voce?”
E ho aperto, perché la voce è l’espressione dell’anima. Se l’ascolti ad occhi chiusi, la voce ti parla di più, ti dice più cose delle parole che articola. E chi metaforicamente mi ha bussato, nel senso che mi ha cercato, sono degli amici che nella vita, oltre a fare altro, scrivono, raccontano, studiano, compongono, mettono su carta a inchiostro visibile il frutto delle loro ispirazioni, delle loro creazioni, nell’eremo del loro sacro essere.
“Che fa…”
Nel farmi partecipe della loro nuova opera, con mia grande sorpresa mi hanno chiesto due parole (anche di più, a mio piacere) di introduzione, di presentazione alle loro creature prima della stampa e della pubblica condivisione.
“Ma io…”
E loro a insistere.
“Ma io non sono…”
E loro a insistere.
“Ma io non sono uno che …”
E loro a insistere.
“Sì, certo, va bene”.
Alla fine hanno stritolato ogni mia indecisione e timidezza, facendomi sentire importante, dando valore a qualcosa di prezioso e a qualcosa che ancora non c’è, che deve venire, fluire, venir fuori, scaturire da qualche sconosciuta parte.
Ho la fiducia totale. Potrei scrivere proprio due parole, seguendo letteralmente l’amichevole richiesta. Per loro andrebbe bene lo stesso.
Mi hanno lasciato libero di aprire come voglio.
Non ha importanza se sono o non sono per tutti gli altri importante, lo sono per loro e questo basta. E questo mi fa sentire importante per loro, non interessati agli attestati appesi alle pareti con i master dei master in “Presentatore di libri e affini” con gli affini che ti aprono le porte per tutto il resto: opuscoli, fascicoli, cartoline, carta intestata, didascalie.
Ho scritto tutto questo, dilungandomi per i critici, per scrivere un messaggio cifrato all’amico (è già il terzo in pochi mesi, mai così tanti) che l’altro giorno mi ha contattato e al quale con grandissimo piacere ho detto di sì:
“Vedi che l’ho già scritta, ieri, sullo smartphone, a letto, coricato su un morbido cuscino, prima dello scoccare della mezzanotte e un secondo del Primo Maggio. Ora la debbo solo rileggere. Ti chiedo solo un po’ di pazienza”.
Mi ha dato pochi giorni di tempo per i tempi dettati dall’editore e quando hai pochi giorni vieni preso dall’ansia e ti viene da morire perché non puoi permetterti di sgarrare con gli amici, con le persone che stimi, a cui vuoi bene; devi trovare la chiave giusta, il tono giusto, la parola giusta, l’incipit giusto, fulminato sempre dall’ispirazione che non ti arriva sempre e i cui porci comodi non puoi aspettare. È una grande responsabilità. E un impegno non indifferente. Ma giusto giusto l’ispirazione è giunta al momento giusto.
P. S. Un pensiero prima di chiudere. Ma perché non conservare questo post, scritto nel risveglio del Primo Maggio, e farne una bella presentazione originale?
P.S. del P.S. Avrei potuto limitarmi a scrivere sinteticamente sui social: “Vedi che pronta è!” Ma che senso avrebbe avuto in una piattaforma che della sintesi di due parole ha fatto la sua ragione di esistere e il suo successo?
Raimondo Moncada
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