Giocare a calcio a ottant’anni

“Ciao, Raimondo”.

Incontro un amico, sempre affettuoso. Ogni volta che mi vede e sta a tu per tu con me, mi punta con lo sguardo, sta diversi secondi a caricarmi come di energia, incantato, come un Superman dai poteri sovrumani, e poi conclude con un augurio battuto parola per parola:

“E sempre auguri”.

Lo ha fatto anche questa mattina, dandomi pure una lezione di vita e di vitalità.

L’ho conosciuto anni fa al Comune di Sciacca. È in pensione almeno da tre lustri. Vedendolo, salutandolo, abbracciandolo, mentre mangia con grande gusto un pasticcino in un bar, tutto impolverato di zucchero a velo, gli chiedo:

“Ma quanti anni hai?”

E alzandomi la mano destra, tra un boccone e l’altro, mi alza il dito indice.

“Quanti?” richiedo.

Liberandosi dal boccone e masticando la risposta mi dice:

“Ottantuno!”

“Complimenti. Non sembra neanche”.

E qui il suo insegnamento:

“Domani vado a giocare a calcio”.

“Come?”

“Una partitella tra amici”.

Nota, nell’attimo del silenzio, dell’ esitazione, la mia meraviglia, mista a incredulità.

“Gioco senza affaticarmi, per muovermi…”

E dicendolo ondeggia, facendolo ballare nell’aria, il suo corpo ultra ottantenne, mingherlino, ma ancora atletico, ancora capace di quegli sforzi che trentenne mi facevano uscire la lingua di fuori nelle partite domenicali di calcetto con i miei amici di Agrigento.

“In che ruolo giochi?”

“Difensore”.

Un uomo che nella testa è ancora ragazzino, che si tratta bene, che ama stare con le persone, e che si gode la vita senza sentirsi finito.

Raimondo Moncada

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