Spegnere Sanremo per la Turchia?

Non tutti proviamo lo stesso dolore. E tra il festival di Sanremo e la tragedia di Turchia e Siria stiamo facendo una scelta. Lo svago, il rilassamento, l’intrattenimento, la distrazione, il commento divertito per una esibizione di un cantante o di un comico da un lato, e dall’altro le immagini di macerie, di cadaveri, di urli, di lacrime.

Suscita più clamore un vaso di fiori rotto su un palcoscenico della finzione che città intere rotte da un devastante terremoto.

Oltre al sentimento di empatia, io provo un senso di disagio, misto a senso di colpa, impotenza e anche vergogna per le mie azioni, per la visione del festival di Sanremo, per il passatempo sui social a suon di post.

Una sera ho detto a Lucia: “Spegni la tv, è da stamattina che leggo e sento di morti, di bollettini che aggiornano il disastro minuto dopo minuto, cento, mille, ventimila vittime… e vedo immagini che non riesco a vedere”.

E ancora ho questo stato d’animo. Da un lato un’ecatombe di dolore, comunità in macerie, la disperazione di genitori che scavano a mani nude tra cumuli di case, un padre che sotto la pioggia tiene per mano la figlia adolescente ormai priva di vita col corpo ancora incastrato sotto quel che rimane della loro casa.

Come reagire?

Come seguire una catastrofe del genere con numeri che con il tempo perdono pure di significato, di peso, come la guerra in Ucraina. Chi decide il grado della nostra commozione? Chi decide a quale avvenimento partecipare, da casa, davanti alla tv o sul display di un cellulare? Oltre al senso di umanità c’è anche quello della disumanità?

Mentre viviamo e commentiamo il festival della canzone italiana, alla fine del comune Mar Mediterraneo, si vive la tragedia con dimensioni bibliche. C’è chi scava, c’è chi piange per la propria famiglia sterminata, mentre noi ci distraiamo con tweet e post su Blanco e i Maneskin e Ferragni, guardando Sanremo fino a quando le forze cedono e ci mettiamo a dormire, sotto le coperte, con la testa sopra un cuscino, con il corpo rilassato su un morbido materasso, con la voce di Fiorello che riempie di ilarità la nostra serena notte.

Cosa è giusto?

Cosa è sbagliato? 

Dobbiamo spegnere Sanremo e tutti gli altri programmi di intrattenimento di Rai e reti private che occupano l’intero palinsesto televisivo?

E fare cosa?

E mi chiedo ancora: possiamo provare dolore per ogni tragedia che accade ogni giorno in ogni angolo del mondo?  E per quale evento?

Le tragedie sono tante, troppe, e vengono pure ingigantite o sminuite, hanno rilievo o vengono ignorate, si prendono un intero telegiornale o vengono oscurate da manifestazioni come Sanremo che attirano l’attenzione di un’intera nazione, in tv e sui social. 

Abbiamo pure un’empatia condizionata da cosiddette scelte redazionali e da algoritmi che ci fanno apparire nelle timeline dei nostri profili social solo Sanremo o solo Turchia e noi sulla base di quel che vediamo, di quel che sentiamo, di quel che ci dirà anche un monologo a Sanremo (sulla dittatura religiosa in Iran, sul razzismo vissuto dalle nostre giocatrici azzurre di colore, sulla discriminazione della diversità, sulla campagna ministeriale di prevenzione del cancro…) agiremo di conseguenza.

Io chiedo scusa non so a chi per la mia reazione. Non è cinismo. Ma sono diventato troppo sensibile al dolore. E ho pure la lacrima facile, basta un niente per farmi piangere.

Come si fa a paragonare le tragedie? E perché per un evento stai male per giorni e per un altro, con altre dimensioni, non senti in te muovere lo stesso terremoto emotivo?

Io ancora sento le scosse telluriche per la morte di mio padre avvenuta nel 1997.

E forse, quando spengo la tv, è perché mi difendo da un carico emotivo che non posso più sopportare come prima.

Ci sarebbe da spegnere Sanremo è tutta la tv. Ma poi ti chiedi: così non si ferma la vita?

E ti chiedi ancora: ma se il terremoto fosse accaduto in Italia? O vicino casa nostra? O a casa nostra? 

Ricordo uno degli effetti collaterali della mia chemioterapia, un terremoto esistenziale: l’inappetenza, il rifiuto del cibo. Per contrastarlo, dicevo a Lucia: preparami pietanze dal sapore forte, che non ho mai mangiato, proviamoci. Mentre per tenere su il morale, e contrastare l’abbattimento emotivo, uno dei miei fratelli mi ha consigliato all’inizio di uno dei ricoveri: mi raccomando, fai il pieno di film comici. Per non parlare di altre azioni di contrasto di effetti che si sono scatenati dalla malattia e dalla cura della malattia e dalla frequentazione di tante persone in condizioni molto gravi. E che fai? Piangi sempre per il tuo dolore e per il dolore verso gli altri? Io ho pianto e mi sono tanto sforzato a trovare motivi per sorridere e far sorridere, anche i medici.

Siamo esseri sensibili, fragili, umani, con la tendenza ad allontanarci il più possibile dal dolore, anche vivendolo dal di dentro.

Raimondo Moncada

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