Buio. Silenzio. Un faro sul tuo corpo ancora ferito. Mille occhi sul tuo volto. Un palcoscenico, un microfono, la musica che non ti fa sentire solo, che ti dà l’intonazione, che ti dà il là, che ti accompagna con il suo sentimento.
Ormai ci siamo.
Mi sono lasciato coinvolgere da un amico, un giovane autore, un giovane regista, Giovanni Giglio, che mi ha pensato, che mi ha voluto coinvolgere con un suo testo, dentro un gruppo a me sconosciuto e dove mi sono trovato subito bene, subito accolto.
“Ho pensato a te per dare la voce al poeta Vincenzo Licata”.
Finisce l’attesa, che vivo ad occhi chiusi, dietro le quinte di una siepe.
Il pensiero è il rigonfiamento alla pancia. Si noterà? Darà fastidio? Distrarrà? Lascio cadere la camicia fuori dalla cintura per nascondere tutto con la complicità della giacca (sospetta con questo caldo!).
Non puoi non pensarci. Ma non puoi consentire che diventi un limite, un handicap, un blocco, un impedimento per provare a rifare quello che facevi prima.
Ma ci pensi, perché lo senti.
Ho fatto bene?
Ho fatto male?
Era meglio stare sereno a casa, senza pensieri, lontano da tutto e da tutti?
Ma sì, ho fatto bene!
Entro. È il mio turno. Luci, microfono, sento la musica, vado. Riconosco l’emozione dell’entrata in scena.
Il giorno prima, durante l’ultima prova, mi sono emozionato, mi si è rotta la voce su “Cunnucemu la Madonna”. Non so se si è notato. Mi sono sforzato per non farlo capire. Ma forse l’hanno capito. Adesso c’è il buio, c’è il faro, ci sono mille occhi. E vai!
Sono fermo, immobile. Non mi posso permettere movimenti.
Combatti contro i pensieri. Ad un tratto ti dimentichi di tutto. Sei dentro. Sei normale, come prima. Dai voce al poeta Licata. I suoi versi sono il vento che soffia nelle tue vele.
Il pubblico amico ascolta in silenzio e applaude alla fine. È sensibile, partecipe. Ascolta solo la voce e i suoi versi. Non guarda altro. Forse non sa. Non può immaginare. Così mi convinco.
Ai saluti, con le mani che si alzano assieme alle mani degli altri attori, ritorna il pensiero. Forse si vede, forse l’hanno visto.
Sei stordito. Vai via. Ritorni a casa. Dormi. Recuperi il sonno perso nelle precedenti notti. L’indomani ci ritorni. E ci ripensi. E piangi. Perché ti condividono le foto, gli spezzoni di video. Perché ti arrivano messaggi che hanno la meglio sulla fragilità emotiva.
E pensi a quello che hai passato, a quello che stai passando. A chi è rimasto indietro. A chi non ce l’ha fatta. Pensi a te che, come dentro un miracolo, cerchi di vivere ogni momento nella sua amplificazione con la massima intensità dicendoti: ci sono ancora, nonostante tutto.
Ma piangi, continui a piangere, dando spettacolo.
Raimondo Moncada
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