Immagina di avere bisogno delle cure urgenti di un ospedale, per te, per un tuo familiare, per un amico: una frattura, un colpo al cuore, una crisi respiratoria, un brutto male (cosiddetto incurabile). Chiami l’ambulanza o prendi la tua macchina e parti di gran corsa.
Capita, è capitato.
Ogni giorno, se ci fai caso, senti le sirene che coprono ogni altro rumore, che ti arrivano all’orecchio non sai da quale distanza. Cosa sarà successo? Chi stanno trasportando? E dove vanno? Non certo in spiaggia a divertirsi, non certo a fare le corse in un autodromo, ma in ospedale per un primo livello di assistenza e se necessario un secondo o un terzo se esistono. O altrimenti per un trasferimento in altra struttura più attrezzata, nella rete della sanità pubblica.
Immagina adesso di arrivare nel luogo dove pensavi di trovare l’assistenza ospedaliera di cui avevi bisogno con urgenza e di non trovare niente, un edificio vuoto o semivuoto, magari con qualche superstite nascosto e impazzito o senza il reparto che ti serviva o senza l’immediatezza dell’assistenza che ti costringe a un’attesa assassina.
Per me non è immaginazione è un incubo.
Ho avuto bisogno di un ospedale pubblico non per un graffio, non per una lesione, ma per cure e interventi salvavita. E ancora sono dentro, in attesa di altri interventi e di controlli continui. Io ho estremo bisogno dell’ospedale e non dell’edificio, ma dei medici, degli infermieri, dei tecnici, delle strumentazioni, per un esame, per un controllo, per una visita, per un conforto, per un monitoraggio continuo, per seguire da vicino e in profondità la patologia e, se occorre, intervenire questa volta con tempestività.
Senza ospedale si muore (io non avrei avuto la possibilità di scrivere queste parole). Così come si muore con un ospedale non attrezzato, non adeguato alle esigenze dei pazienti del territorio dove è stato non a caso costruito. Così come si muore se non ti puoi permettere cure in centri privati o lontano da casa tua.
Io sono ancora in vita grazie alla sanità pubblica, grazie a tre ospedali, che ancora si prendono cura di me essendo ancora ospedale dipendente.
Toglietemi tutto, ma non il mio ospedale.
Raimondo Moncada
P.S. Grazie sempre alla sanità pubblica e a chi – per frequentazione abbiamo pure fatto amicizia – a Sciacca e a Bologna mi ha accolto e curato e continua a farlo rendendo più luminoso il lungo buio pauroso traumatico doloroso mai sicuro tunnel.
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