Io ho il mio San Calò, non Calogero, ma proprio Calò. Ed è nero. Ed è santo. E anche se sono distante già sento, già vivo la festa. Ce l’hai dentro. La vivi da vicino pur non essendoci fisicamente, all’uscita dal santuario, durante tutta la processione della sua statua, che sale e che scende per tutta la città, per vie, per vicoli, per piazze, arrivando dove ognuno ha bisogno di un miracolo.
E arrivava pure da me, per Via Duomo, ed io, udendo le voci rimbombare udendo le voci rimbombare e il crescendo di Zingarella della banda musicale, uscivo saltando dalla gioia dalla mia mini casa di Vicolo Seminario, per andargli incontro da piazza don Minzoni immergendomi, piccolino, tra la folla di fedeli che ogni anno lo accompagna e arrivando fino ai piedi dei sudati e sovrumani portatori quasi protetto dal lancio del pane benedetto tirato da finestre, balconi e pure dalle scale della cattedrale di San Gerlando, il patrono di Agrigento, sicuramente invidioso, ma muto, per tanto seguito sotto i suoi occhi increduli, per un’intera città che lascia ogni cosa e va dietro il santo nero, sotto il sole spietato, chiedendogli di tutto: guarigioni, amori e pure l’acqua.
E tutti ci salgono di sopra (anche io da bambino), arrampicandosi per la vara, lo baciano, lo abbracciano fino a soffocarlo, lo accarezzano, lo asciugano dalle fatiche con un fazzoletto che poi si custodisce a casa come santa reliquia.
San Calò mette sottosopra un’intera città che ha fede, che ha bisogno, che si apre, che scende pure in piazza con eccezionale partecipazione. Ed è festa, non protesta, tra grida di gioia “Evviva San Calò!” e battiti accelerati di tamburi con quel suono che diventa pure parte di te e al quale contribuisci con un cuore che va a mille.
Come fai a non chiedergli una grazia?
Raimondo Moncada
Lascia un commento