Mi sono imbattuto, scrollando noiosamente su Facebook, in questa foto. È datata 23 dicembre 1968. Non strade sventrate, non brandelli di corpi senza vita per ricordare un grande magistrato, un grande siciliano.
Un uomo e una donna si sposano, sognando un’intera esistenza d’amore assieme. Ognuno col proprio lavoro, con le proprie aspirazioni, con le proprie scelte condivise.
23 dicembre 1968: avevo un anno e mezzo. Cominciavo a vivere nei miei primissimi passi, con le mie primissime parole, in una micro società siciliana nel centro storico di Agrigento, inconsapevolmente, non capendo niente della mia realtà, non conoscendo altri mondi e le complicazioni dei consorzi umani.
Distanti da me, in un’altra città, due persone, Agnese e Paolo, si univano felici in matrimonio: marito e moglie con il rito “finché morte non vi separi”.
La felicità è questa foto, come tutte le foto di matrimonio, come la mia foto di matrimonio che tengo a poca distanza dai miei occhi: giovani, belli, sorridenti, con una vita davanti.
Siamo lontani da quell’inimmaginabile – allora – 1992, quando tutto finisce, quando decidono di eliminarti per quello che fai, che continui a fare, che vuoi continuare a fare, senza fermarti, con mille domande e sicuramente con le umane paure, considerando anche che sei un marito, che sei un padre, che hai una famiglia.
Fai il tuo dovere eppure devi vivere blindato, scortato, isolato, sconvolto, dentro un’esistenza non più umana, non più sopportabile, sospettando di tutto e di tutti, con la morte ormai addosso dopo l’uccisione del caro amico Giovanni, della moglie, degli uomini della scorta. Ed è quello che avviene, perché era scritto e nessuno ha fermato le mani assassine.
Fa male questa foto. Molto male. E per questo mi sono fermato a guardarla e a riflettere mentre ancora si cerca la verità dopo così tanti anni. Questa foto dice tanto, è una sentenza contro le nostre coscienze.
Raimondo Moncada
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